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Zanolla Maurizio (Manolo) (1958-)

Nasce a Feltre, in provincia di Belluno, nel 1958 e inizia ad arrampicare all’età di diciassette anni. Manolo ‒ questo è il suo nome d’arte ‒ è un pioniere dell’arrampicata libera e scala principalmente in falesia. Diventa ben presto guida alpina e maestro d’arrampicata. Nel 2012 riceve il prestigioso Premio del Club Alpino Italiano – Genziana d’oro al miglior film di alpinismo o montagna al Trento Film Festival per Verticalmente démodé, di cui è coautore e protagonista. Tra le numerose imprese alpinistiche, si ricorda per: aver aperto una nuova via in libera sul Dente del Rifugio (1975), presso le Pale di San Martino; aver aperto la via “Dei Piazaroi” sulla parete Sud della Cima Madonna (1978), con Aurelio De Pellegrini, Daniele Ruggero e Marco Simoni; aver aperto la via “Lucertola schizofrenica” sulla falesia del Totoga presso le Pale di San Martino (1979); aver liberato la via Sud-Est del Sass Maor (1980); aver aperto la via “Supermatita” sul Sass Maor (1980) con Piero Valmassoi e per aver aperto la via “Eternit” sulla Falesia del Baule (2009) con Adam Ondra. Scrive: Nelle Pale di San Martino. Scalate scelte: Canali-Fradusta, Tognazza, Totoga, Bologna, Zanichelli, 1983; Appigli ridicoli. Arrampicare nel Primiero, Brescia, Artigianelli, 1998; Eravamo immortali, Milano, Fabbri, 2018.

 

Titolo: Eravamo immortali

Luogo di edizione: Milano

Casa editrice: Fabbri

Anno di pubblicazione: 2018

 

I trentacinque capitoli che compongono il volume sono accompagnati da numerose fotografie, dotate di didascalie, rigorosamente in bianco e nero. La narrazione inizia con il racconto dell’apertura della via “Eternit” sulla Falesia del Baule, sulle Dolomiti Bellunesi, nel 2009 insieme al giovane climber ceco Adam Ondra, e l’autore torna indietro con la mente a «quando un ragazzo, di fronte alla colonna sonora di una fabbrica, nella vita ha scelto quella libera del vento, chiedendosi però se era davvero ciò che voleva» (p. 16). Dopodiché dedica alcune pagine alla sua infanzia da ribelle, al ricordo tanto dolce quanto nostalgico della madre, del padre, delle sorelle e dei nonni, nonché alla sua prima volta in montagna con la famiglia. In seguito, Manolo rammenta quanto gli sia stata utile per l’arrampicata la ginnastica artistica, intrapresa da ragazzino grazie all’interessamento di Attilio Tazzer. È solo nel dodicesimo capitolo, però, che l’autore racconta di essersi avvicinato all’alpinismo grazie all’incontro fortuito con Roberto De Bortoli che, dopo una serata trascorsa a narrargli le sue avventure sulle montagne, porta Manolo alla falesia Le Perine, presso Feltre, per iniziarlo all’arrampicata su roccia. Manolo descrive così questo momento: «Quel giorno il muro di roccia compatta e colorata mi apparve diverso, come si fosse improvvisamente rilassato. Le sue scaglie rosse e rugose sembravano quasi indicare un percorso. Accarezzare quella pietra mi fece entrare in un mondo nuovo, distante anni luce dal mio; eppure il contatto aveva qualcosa di piacevole e quasi familiare, come non avessi mai fatto altro» (pp. 100-101). Dopodiché, l’autore analizza lucidamente ciò che è avvenuto negli anni successivi e, in particolare, il periodo delle lotte di classe, tra scontri in piazza e creazioni di comuni, seguito dall’amarezza per i repentini passi indietro compiuti dalla società italiana. Spiega così il suo desiderio di ascendere i monti: «Forse fu per questo che preferimmo allontanarci fra le montagne. Volevamo liberarci da ciò che cercavano di metterci addosso; fuggire dalla frenesia, dalla droga e dai nodi della confusione politica che si stava frantumando negli Anni di piombo. E quelle vette ci accolsero sincere» (pp. 123-124). È con Giuseppe Zamboni e Aldo Bortolot che inizia a rifugiarsi tra le più impervie pareti delle Dolomiti, vivendo un «alpinismo esplorativo» (p. 124) romantico e pericoloso. All’età di diciotto anni, Manolo e Bruna hanno una figlia, Manuela, ciononostante l’autore continua ad arrampicare in modo spericolato. In seguito, racconta dell’ascensione della parete Sud del Cimon della Pala dell’apertura di una via in libera, con Roberto De Bortoli, sul diedro Sud-ovest del Dente del Rifugio in Val Canali. A questo punto, Manolo inizia a scalare senza utilizzare chiodi, definendo questa scelta «una rivoluzione personale e interiore, piena di contraddizioni» (p. 151), con la consapevolezza di rischiare di cadere ‒ e di perdere la vita ‒ per perseguire un ideale. Compie l’ascensione dello spigolo Strobel e in cima, dopo aver affrontato difficoltà eccezionali, comprende di voler vivere come alpinista tanto da divenire istruttore del gruppo rocciatori Cai. In seguito, scala la via Bonatti sul Grand Capucin insieme a Diego Dalla Casa e Cesare Levis con i quali si interroga sulla schiodatura: Manolo riferisce di essere d’accordo ma a condizione che i chiodi superflui siano eliminati dal capocordata e non dal secondo. In quegli anni compie numerose ascensioni in solitaria ma in seguito a una serie di imprevisti racconta: «incominciai a diluire in frequenza la pericolosa abitudine di scalare in quel modo, mettendo nello zaino prima di tutto la voglia di tornare. E, in montagna, nemmeno quello era sufficiente a garantire il ritorno» (p. 206). Nel ventitreesimo capitolo, Manolo parla della sua esperienza tra gli alpini presso i quali, tra litigi e zuffe, si dedica allo sci e allo scialpinismo, salvo poi diventare istruttore al corso di arrampicata su roccia, sentendosi «ingabbiato in un inutile “campeggio da boy scout”» (p. 231). Seguono i capitoli dedicati all’ascensione del monte Arbel, nel 1978, con Piero Valmassoi e Dario Sacchet, alla scalata della Cima della Madonna, nello stesso anno, con Ruggero Daniele, Aurelio De Pellegrini e Marco Simoni, nonché alla sfortunata spedizione al Manaslu ‒ riguardo alla quale l’autore riporta le annotazioni scritte sul diario ‒, nel 1979, con Elvio Terrin, Lorenzo Massarotto, Marco Simoni, Vittorio de Savorgnani e il medico Bruno Di Lenna. In seguito a quest’ultimo viaggio, Manolo trae delle conclusioni interessanti riguardo all’alpinismo himalayano: «quel tipo di alpinismo ‒ con la sua burocrazia, il suo impegno economico e la mancanza di contatto con la roccia ‒ non mi attirava. Non sopportavo che un bambino mi portasse lo zaino, il cibo o le tende, e il tempo che si allungava tra una cosa e l’altra mi sembrava sprecato. Avevo così tante montagne attorno… Bastava aprire la porta di casa e potevo anche raggiungerle a piedi» (p. 317). In volume si conclude, infatti, con il racconto di altre ascensioni effettuate in Europa, dalla Cima della Busazza alla Torre Valgrande, dal Precipizio degli Asteroidi alla Torre d’Alleghe, dal Verdon ‒ dove scala con Domenico Bellenzier, Icaro de Monte, Marco Troussier, Jacques Perrier e Patrick Perhault ‒ al Monte Totoga e all’Aguglia di Goloritzé, fino alle scalate compiute con il gruppo Formiche rosse. In questo periodo, Manolo e i suoi amici intraprendono una dieta rigida, smettono di assumere alcol e droga, si allenano sui boulders e accolgono alcune delle innovazioni che investono l’ambiente alpinistico.

La prosa di Manolo è brillante, ironica, irriverente e spesso è impreziosita da intense, seppur brevi, descrizioni paesaggistiche che lasciano trasparire l’emozione avvertita dall’alpinista veneto.  Come spiega lui stesso, inizialmente Manolo preferisce indossare scarpe da ginnastica ed è piuttosto reticente anche all’utilizzo di chiodi, mentre in un secondo momento, nel corso degli anni Settanta, comprende l’efficacia delle pedule su roccia e inizia anche ad adottare moschettoni, cordini, staffe, jumar, discensore, materassini da bivacco e, a malincuore, anche i chiodi a pressione. Lui e i suoi amici compiono raramente scalate invernali, non si allenano con il freddo e sono soliti organizzare ascensioni in primavera e in estate. Riguardo ai cambiamenti che investono la pratica alpinistica negli anni Settanta, Manolo registra: «La grande sicurezza regalata dai numerosi chiodi a pressione e dalla solidità della roccia permetteva un’arrampicata diversa a livello mentale. Protetto dalla semplice presenza dei chiodi che rifiutavo di mettere, potevo spingermi in libera dove altrimenti non avrei osato. Quelle vie che forzavano a colpi di martello le pareti e riducevano la scalata a un semplice esercizio di carpenteria erano una faccia dell’alpinismo di quel periodo. […]. Il fatto che lo considerassi sbagliato, sentendo la responsabilità di ciò che ci lasciavamo alle spalle, riguardava solo me» (p. 238). Per esporre il senso del suo alpinismo, nel primo capitolo, Zanolla scrive: «Ma appena sfiorate, quelle mete parevano perdere significato, al punto di augurarmi che continuassero a sfuggire» (p. 17), permettendo al lettore di comprendere, fin dalle prime pagine, il senso del suo alpinismo, caratterizzato più dalla sfida che dalla conquista, più dal percorso che dall’arrivo, più dalla ricerca di un piacere personale che dal desiderio di battere un record. Nel capitolo Insieme fino alla fine, infatti, Manolo chiarisce che per lui e i suoi amici «la “lotta coll’alpe” era solo bella come l’arte, una forma di aspirazione alla purezza, immersi in luoghi che […] sembravano autentici» (p. 145). Dopo una lunga serie di ascensioni, anche piuttosto pericolose, l’autore traccia un bilancio e afferma: «non andavo in montagna per morire, anzi. Ci andavo per vivere nella bellezza della natura, lontano dalle contaminazioni sociali, dalle certezze soffocanti e dalle false sicurezze. Era lì che volevo essere […] a inseguire sogni e inutilità» (p. 365).

 

[Clementina Greco, 20 dicembre 2024]

Ultimo aggiornamento

06.02.2025

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