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Rey Guido (1861-1935)

Nasce il 28 novembre 1861 a Torino dall’industriale Giacomo Vincenzo Rey e dalla duchessa Lydia de Mongenet de Renaucourt. Dopo aver seguito per qualche anno l’attività paterna, decide di dedicarsi ai viaggi e all’alpinismo. Quest’ultima passione gli viene trasmessa dallo zio Quintino Sella, ministro del Regno d’Italia nonché fondatore del CAI. Durante un’ascensione sul Colle del Gigante perde tragicamente il fratello Mario. Nel frattempo, si fa notare come fotografo pittorialista tanto da vincere la medaglia d’oro alla seconda Esposizione Nazionale di Firenze nel 1899. Le sue imprese alpinistiche, spesso accompagnate dall’amico Ugo De Amicis, vengono da lui raccontante in articoli, libri e conferenze, diventando sempre più famoso nell’ambiente alpinistico di inizio Novecento. Durante la Prima guerra mondiale, dà il suo contributo alla Croce Rossa, ma durante un’operazione la sua auto viene ribaltata e Rey riporta gravi danni all’apparato circolatorio, tali da fargli abbandonare l’attività alpinistica. Muore il 24 giugno 1935. Si ricorda per la prima ascensione della cresta nord della Grivola e per aver aperto due nuove vie sul Monviso. Scrive Alpinismo a quattro mani, Torino, Roux Frassati, 1897; Il Monte Cervino, Milano, Hoepli, 1904; Alpinismo acrobatico, Torino, Lattes, 1914; Il tempo che torna, Torino, Montes, 1929 e La fine dell’alpinismo, Torino, Montes, 1939.

 

Titolo: Alpinismo acrobatico

Luogo di edizione: Torino

Casa editrice: Lattes

Anno di pubblicazione: 1914

 

Il libro, dedicato a Ugo De Amicis, suo caro amico nonché compagno di ascensioni, è strutturato in due parti di diversa lunghezza: Sulle guglie di Montanvert e Sulle torri del Trentino. Il primo capitolo racconta l’ascensione sul Grépon del 1904 che, secondo Rey, dalle pagine di Le mie scalate nelle Alpi e nel Caucaso di Mummery sembra «si tratti di una facile passeggiata da signora» (p. 15). L’impresa, in verità molto complessa, viene compiuta da Rey, De Amicis e le due guide di Valtournanche, Ange ed Aimé Maquignaz, e viene raccontata come «una lotta in cui si conquista il terreno palmo a palmo» (p. 45). Il secondo capitolo è dedicato alla traversata dei Charmoz e all’ascensione del Dente del Réquin compiute subito dopo il Grépon. Risale al 1905, invece, la salita al Petit Dru ed è interessante come, durante il bivacco della notte precedente l’attacco, Rey venga colpito dalla presenza di una signora americana, in compagnia del marito e di una guida tedesca, intenzionata a scalare il Grand Dru. Le imprese alpine riportate dalla donna, infatti, risultano inconsuete a Rey che è affascinato dal «contrasto fra l’ardimento e la dolcezza» (p. 94). Conclude la prima parte il racconto dell’ascensione all’Aguille Verte del 1905, definita come «premio largo, generoso quali sa darne quella munifica signora che è l’Alpe, inesauribile nella varietà de’ suoi doni» (p. 141). La seconda parte del volume racconta di fatti avvenuti a partire dal 1910 e in particolare in Trentino. Comincia con l’ascensione alle Torri del Vajolet ‒ occasione in cui prova per la prima volta le scarpe dalla suola in corda ‒ ma la descrizione paesaggistica è prevalente e, talvolta ‒ come rimproveratogli da alcuni contemporanei ‒ assume toni fortemente patetici. L’autore si rammarica che la cosiddetta Torre Winkler sia nominata a un alpinista tedesco, Georg Winkler, e non a un italiano. È interessante anche la lunga presentazione di Tita Piaz, con il quale scala le Torri del Vajolet insieme a Ugo De Amicis: «Piaz non è una guida come le altre; sarei per dire che non è affatto una guida. È l’esponente di una formula nuova di alpinismo, il maestro di tutta questa scuola di arrampicate brevi ma intense che si svolgono sui confini fra il difficile e l’impossibile» (p. 169). Dopodiché, un capitolo è dedicato alla difficile scalata della parete sud della Marmolada, effettuata solo due giorni dopo le Tre sorelle del Vajolet, definita come «una giornata campale, una pugna lunga, ostinata, durata dall’alba infino a sera» (p. 201). Interessante anche il racconto dell’ascensione del Tschierspitze nel 1910 con Piaz, De Amicis, Iori, un tedesco ‒ di cui l’autore non rivela mai il nome ‒ e un portatore. In Intermezzo, Rey riflette sull’alpinismo e sul suo rapporto con la montagna che «come la Patria, non vuole offerta di vane parole, ma sacrificio di opere e virtù di ardimenti» (p. 232). Nel decimo capitolo, invece, si descrive l’ascensione alla Cima della Madonna, presso San Martino di Castrozza, nel 1912. Segue la salita al Cimon della Pala nello stesso anno, affrettata dalla presenza di una cordata tedesca che si avvicina rumorosamente al gruppo di Rey. Il volume si conclude con l’ascensione alla Pala di San Martino, con Zagonel, De Amicis e Bettega, sempre del 1912, vissuta come «un atto supremo di amore verso la bellezza del monte» (p. 293), prima di porre fine all’attività alpinistica. Il volume è corredato di fotografie con le quali Rey ricerca l’«esatta rispondenza fra testo ed immagini» (pp. nn.) per trasmettere «quel carattere di assoluta sincerità che è necessario in ogni racconto di imprese alpine» (Ibidem).

La prosa è elegante, ricca di suggestive metafore, ma spesso tende al sentimentalismo. Si rileva come, durante numerose ascensioni alpine, Rey rinvenga chiodi, ganci o corde lasciati in precedenza da altri alpinisti. Sulla base di quanto narrato nel volume, Rey arrampica con corde e piccozza, ma utilizza anche chiodi di assicurazione. È interessante come la scrittura accompagni le scalate di Rey che, come racconta egli stesso nel primo capitolo, è solito annotare sensazioni, descrizioni e appunti tecnici nel bel mezzo di un’ascensione perché «in quelle note affrettate, spoglie di artificio, si rintraccia meglio che in una pagina di bella prosa tutta la psicologia di una salita. Talora una frase raccolta testualmente, una parola, un semplice punto di esclamazione valgono su quei foglietti a rispecchiare un moto dell’animo» (p. 110). Nel primo capitolo, Rey afferma, però, di essere «scettico quanto alla possibilità di descrivere la via con evidenza efficace» (p. 21) perché «è troppo personale e diversa l’impressione che ciascuno reca con sé di un luogo» (Ibidem). L’unico «occhio che guarda talora per noi e vede ciò che noi non vedemmo; […] che fissa con calma le cose, le percepisce con nettezza meravigliosa, non si turba alla vista dei precipizi, libero da emozioni e da paure […] è l’obiettivo della macchina fotografica» (Ibidem). Nella narrazione, l’autore non nasconde paure e preoccupazioni provate durante le sue scalate e, al contrario, si sofferma a più riprese su difficoltà e attimi di sconforto caratterizzanti i suoi successi. Sono proprio gli ostacoli, affrontati durante le ascensioni, a ridestare quelle «ataviche facoltà istintive» (p. 194) che nel quotidiano vengono oppresse dall’uomo «moderno, civile, sazio di artifici e di agi» (Ibidem). Nel primo capitolo, Rey spiega a grandi linee la differenza tra l’alpinismo della prim’ora, caratterizzato da ascensioni «lente e solenni, in comitive numerose, su pei vasti declivi di ghiaccio» (p. 19), e quello più moderno, definito appunto “acrobatico”, in cui «ci si arrampica con mani e ginocchia, proni contro la rupe» (Ibidem). Entrambe le tipologie, a suo avviso, hanno la medesima essenza: «la prova del vigore fisico e morale» (Ibidem) perché Rey vede «la lotta coll’Alpi utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede» (p. 12).

 

[Clementina Greco, 2 luglio 2024]

Ultimo aggiornamento

06.02.2025

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