Nasce a Bergamo nel 1967 e inizia ad arrampicare all’età di tredici anni nelle montagne della zona. Negli anni Ottanta comincia a dedicarsi all’arrampicata sportiva, per poi divenire allenatore della nazionale dal 1992 al 1996. Nel frattempo, frequenta la Scuola Militare Alpina di Aosta come allievo e in seguito acquisisce il grado di sottotenente. Dal 1992 inizia la sua lunga carriera di alpinista himalayano specializzato, in particolare, in imprese invernali. Nel 2009 diventa elicotterista e, a partire dal 2011, presta servizio di elisoccorso ad alta quota. Si ricorda, tra le numerosissime ascensioni, per aver scalato il Shisha Pangma nel 1996 e nel 2005 insieme a Piotr Morawski come prima invernale; il Lhotse nel 1997 con Anatolij Bukreev e Dimitri Sobolev; l’Everest nel 2000, nel 2002, nel 2006 e nel 2010; il Cho Oyu nel 2002; il Broad Peek nel 2003; il Makalu con Denis Urubko come prima invernale nel 2009; il Gasherbrum II con Denis Urubko e Cory Richards come prima invernale nel 2011; il Nanga Parbat con Alex Txikon e Ali Sadpara come prima invernale nel 2016. Scrive Cometa sull’Annapurna, Milano, Corbaccio, 2003; 8000 metri di vita, Bergamo, Grafica&Arte, 2008; La voce del ghiaccio. Gli Ottomila in inverno: il mio sogno quasi impossibile, Milano, RCS, 2012; Everest. In vetta a un sogno, Milano, Rizzoli, 2013; In ginocchio sulle ali. La passione per il volo, la missione del soccorso in quota: non voglio smettere di sognare, Milano, Rizzoli, 2014; In cordata. Storia di un’amicizia tra due generazioni, da zero a ottomila metri, con Mario Curnis, a cura di Angelo Ponta, Milano, Rizzoli, 2015; Nanga: fra rispetto e pazienza, come ho corteggiato la montagna che chiamavano assassina, Milano, Rizzoli, 2016; Devo perché posso. La mia vita per la felicità oltre le montagne, Milano, Rizzoli, 2017; Siberia -71°. Là dove gli uomini amano il freddo, Milano, Rizzoli, 2018; I sogni non sono in discesa, Milano, Rizzoli, 2019; Ho visto l’abisso, Milano, Rizzoli, 2020; Il team invisibile. Come diventare una squadra vincente e affrontare le sfide del lavoro e del mondo che cambiano, con Marianna Zanatta, Milano, Rizzoli, 2021; A ogni passo. Le storie di montagna e di vita che racconto a mio figlio, Milano, Rizzoli, 2021.
Titolo: La voce del ghiaccio. Gli Ottomila in inverno: il mio sogno quasi impossibile
Luogo di edizione: Milano
Casa editrice: RCS
Anno di pubblicazione: 2012
Edizione di riferimento: La voce del ghiaccio. Gli Ottomila in inverno: il mio sogno quasi impossibile, Milano, BUR, 2020.
Il volume, costituito da un prologo, otto capitoli e un’appendice, è incentrato sulle ascensioni invernali compiute dall’autore su montagne che raggiungono gli ottomila metri di altezza. Tra un capitolo e l’altro, trovano spazio alcune pagine estrapolate dal diario della spedizione effettuata sul Nanga Parbat da Moro nel gennaio 2012. Infine, il libro è corredato da ben cinquantanove fotografie a colori scattate durante le imprese alpinistiche dell’autore nel corso degli anni. Nel prologo Moro riflette sulla scrittura atta a «rievocare momenti, mesi, settimane e anni passati nel mondo verticale» (p. 9) e racconta come sia stato complesso per lui abbinare alle scalate un’attività così statica. Il primo capitolo è dedicato al tentativo di ascensione della parete sud dell’Aconcagua, poi del Cerro Mirador e, infine, alla compiuta scalata dell’Aconcagua con Lorenzo Mazzoleni per la via normale. In seguito, l’autore racconta il tragico tentativo di scalare la parete sud dell’Annapurna nel 1997 che vede la scomparsa del suo carissimo amico Anatolij Boukreev e di Dimitri Sobolev a causa di una valanga. Introduce, inoltre, la sua passione per l’elisoccorso che inizia nei primi anni Duemila. Dopodiché, narra l’ascensione sull’Everest con Denis Urubko e del Pik Mramornaya Stena insieme ad altri quattordici alpinisti, suddivisi in due gruppi da sei e da nove componenti. Moro giunge in vetta al Mramornaya ‒ chiamato Marble Wall ‒ in stile alpino solo con Urubko e Maksut Jumayev. Questo capitolo è interessante principalmente per la descrizione di un ambiente desolato, povero e militarizzato come quello del Kazakistan. Il capitolo successivo si apre con una riflessione sull’alpinismo dei polacchi ‒ «nessuno più di loro, con pochi mezzi, equipaggiamenti modesti e in condizioni disumane, riusciva a resistere aggrappato alla parete e al sogno di raggiungere la cima» (p. 61) ‒ che negli anni ’80 ha portato alle ascensioni di numerosi Ottomila durante l’inverno. Dopodiché, Moro racconta il suo tentativo fallito di scalare il Shisha Pangma nel 2003 con quattro alpinisti polacchi e due canadesi. Il secondo tentativo, stavolta vincente, con Piotr Morawski, Darek Zaluski e Jacek Jawien del 2005 viene narrato nel quarto capitolo, in cui spiega i vari passaggi che portano solo lui e Morawski sulla vetta prima del peggioramento del tempo. Nella conclusione, l’autore dedica alcune pagine alla riflessione sull’alpinismo che, afferma, è «frutto di un innamoramento, di una vera passione amorosa, sentimentale, verso ciò che [lo] ha fatto commuovere, volare col pensiero» (p. 97), andando alla «ricerca dell’ingrediente esplorativo e avventuroso» (Ibidem). L’autore racconta, inoltre, i tentativi di scalare il Broad Peak nell’inverno tra il 2006 e il 2007 con Shaheen Baig e tra il 2007 e il 2008 con Qudrat Ali e Baig. In seguito, riporta i dettagli della sua spedizione estiva in Pakistan con Hervé Barmasse, durante la quale scala il Beka Brakai Chhok. Dopodiché, i due si recano nella valle di Shimshal per visitare la scuola di alpinismo, da loro sostenuta, aperta a ragazzi e ragazzi e avente Qudrat e Shaheen come istruttori. Mentre si trovano in questo villaggio pakistano, si consuma una tragedia sul K2 che vede la morte di alcuni portatori locali che vengono perfino incolpati dagli alpinisti occidentali sopravvissuti. L’autore, che descrive le reazioni composte della comunità, difende i portatori caduti con parole sferzanti nei confronti dei «falsi eroi» (p. 131) che avevano commesso, a suo dire, «macroscopici ed evidenti errori» (Ibidem). Il settimo capitolo è dedicato alla spedizione in Nepal per scalare in inverno il Makalu con Urubko solo dopo un acclimatamento sull’Island Peak. L’autore si sofferma, in particolare, sulle complicazioni organizzative e logistiche che precedono l’ascensione che diventa una vera e propria lotta contro il tempo prima che giunga una terribile bufera. Nell’ultimo capitolo, Moro parla delle difficoltà riscontrate spesso dagli alpinisti ad avere una famiglia a causa della loro attività. In seguito, racconta la sua spedizione al Gasherbrum II con Urubko e Cory Richards dopo un volo su un elicottero militare al campo base ‒ luogo conteso tra Pakistan e India. L’ascensione finale della vetta dal campo 2 avviene nelle sole trenta ore di tempo sereno previste correttamente da Karl Gabl, meteorologo e amico di Moro. È interessante che l’autore scendendo a 7700 metri chiami sua moglie e Krzysztof Wielicki «il re delle invernali» (p. 242). Nell’appendice l’autore traccia un bilancio della sua esperienza di scrittura riguardo alle imprese invernali, individuando lo scopo della stessa nello stimolare il lettore ad andare oltre l’impossibile che «è l’alibi della nostra resa» (p. 261). Il volume si conclude con un elenco di tentativi e di effettive ascensioni invernali degli Ottomila pakistani e con il curriculum alpinistico di Simone Moro.
Il registro adottato è informale, i periodi sono perlopiù brevi e la sintassi è semplice. Sulla base di quanto emerge dal testo, Moro si impone delle regole estremamente rigide e prepara ogni spedizione curando i dettagli. «Tutte le decisioni» ‒ afferma ‒ «vanno tassativamente prese seguendo la ragione e non il sentimento» (p. 20). Solitamente porta in vetta macchina fotografica e videocamera e talvolta scala usando l’ossigeno. Moro apprezza particolarmente l’alpinismo invernale perché «permette di abbracciare quelle cime e quei panorami con uno sguardo senza tempo, libero dalla percezione e dalla visione di altri alpinisti, delle loro tracce, dei loro rumori, dei loro materiali» (p. 18). Nel quarto capitolo, infatti, l’autore spiega che l’avventura e l’esplorazione sono le caratteristiche principali del suo fare alpinismo senza le quali si sente «un turista d’alta quota» (p. 95). Secondo lui, l’alpinismo «è anche un tipo quasi perfetto di libertà. Non è solo uno sport, ma anche e soprattutto una forma di evasione, di scoperta personale, di esplorazione, di avventura, di contemplazione» (p. 20). Come spiega a più riprese nel volume, l’autore vive l’alpinismo come un mezzo di autoconoscenza e ne accetta, così, le variabili più imprevedibili.
[Clementina Greco, 13 agosto 2024]
Ultimo aggiornamento
06.02.2025