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Lioy Paolo (1834-1911)

Nasce a Vicenza nel 1834 da una famiglia nobile. Dopo essersi diplomato al liceo classico, studia legge a Padova, periodo in cui si appassiona alle scienze naturali. Attivista politico e divulgatore scientifico, si dedica anche a un’intensa attività di ricerca archeologica. A causa del suo aiuto ai garibaldini, viene esiliato per qualche mese a Milano, dove viene ospitato dall’editore Emilio Treves. Parallelamente ai suoi impegni politici ‒ provveditore agli studi, consigliere comunale, consigliere provinciale, deputato e senatore del regno d’Italia ‒ prosegue la sua attività scientifica e letteraria. Dal 1885 al 1890 ricopre il ruolo di presidente del CAI. Muore nel 1911. Ha scritto: Fra le Alpi. Romanzo, Milano, G. Daelli & C., 1864; Un dramma fra le Alpi, Milano, Carlo Barbini, 1867; In montagna, Bologna, Zanichelli, 1880; In alto, Milano, Galli, 1889 e Alpinismo, Milano, Galli, 1890.

 

Titolo: Alpinismo

Luogo di edizione: Milano

Casa editrice: Galli

Anno di pubblicazione: 1890

 

Il volume è costituito da trentaquattro capitoli di varia lunghezza. Nel primo capitolo, intitolato Fuori dal solito mondo, l’autore presenta la sua opinione riguardo all’alpinismo nato, a suo avviso, «nella patria dello spleen» (p. 3), interpretandolo come un «bisogno di uscire da ciò che è conosciuto e uniforme» (Ibidem), per «vedere qualche cosa […] che non fu amata da troppi e da troppo tempo, una verginità che ancora resta» (p. 4). Dopodiché, l’autore si sofferma sulla maestosità e sulla magnificenza delle montagne italiane, mentre il terzo capitolo ripercorre da nord a sud una serie di rifugi e di locande della Penisola, con una particolare attenzione per la Sicilia. In seguito, Lioy presenta l’«admiratio montium» (p. 38) come un filo rosso che lega pensatori e artisti di tempi e luoghi differenti, da Dante a Schiller, da Petrarca a Goethe, da Michelangelo a Heine, da Milton a Bach. Nel capitolo Non si arriva mai!, Lioy racconta la sua ascensione sul Sorapis di Cadore ma non ne dà riferimenti cronologici o tecnici: al contrario, restituisce al lettore la sensazione di scoramento, di percezione distorta del tempo trascorso, di disorientamento avvertiti durante quell’impresa. Nel corso del testo sono presenti numerosi consigli per chi si vuole avventurare in montagna. Quest’ultima viene paragonata nei suoi molteplici aspetti al mare ma, secondo Lioy, «la montagna non ha i poetici idilli e le leggende le quali temperano l’austerità del mare» (p. 104). Fiori, cibo, leggende, paesaggi, ascensioni, canti, profumi, alpigiani, superstizioni e animali di vario genere sono solo alcuni dei tratti predominanti del libro di Lioy che si propone come analisi suggestiva del mondo alpestre. Questo, secondo l’autore, è stato danneggiato irreparabilmente ‒ come viene spiegato nel diciassettesimo capitolo ‒ dalle innovazioni industriali che caratterizzano la fine del diciannovesimo secolo e che costringono numerosi montanari, ormai in miseria, ad emigrare. Inoltre, Lioy descrive suggestivamente come cambiano il panorama, le piante, gli animali e i suoni procedendo sempre più in alto. Il ventiquattresimo capitolo è dedicato alla difesa dell’alpinismo dall’accusa di essere troppo pericoloso, comparandolo ad altre attività rischiose come il nuoto. L’autore dà conto della fondazione e dell’attività del CAI che promuove quella «stupenda scuola di costanza» (p. 308) che è la montagna, per poi soffermarsi perfino sulle donne alpiniste. Nella conclusione del volume, Lioy considera anche le montagne del resto del mondo e l’alpinismo ad esse legato, ma il punto di arrivo della sua riflessione è che ogni montagna conserva «la gloria dei cuori semplici e buoni» (p. 367).

La prosa è elegante e ricca di riferimenti eruditi ma il lessico è piuttosto comune. Come si evince dal testo, l’alpinista di riferimento per Lioy è John Tyndall di cui ammira, in particolare, la pazienza prima di un’ascensione. Ciò che l’autore rileva con rammarico, infatti, è che l’ambiente montano è frequentato da frettolosi turisti che tengono «la testa china sovra le carte» (p. 48), piuttosto che ammirare i paesaggi attorno a loro. Al contempo, Lioy critica aspramente entomologi e botanici che analizzano schematicamente il meraviglioso contesto alpestre. L’autore dedica parole sferzanti anche agli altri alpinisti «tutti d’un pezzo con la testa piegata innanzi e con le gambe lunghe lunghe in guisa di pertiche per i quali le impressioni alpine si riassumono nell’arguto diario stereotipato da Taine: “giorno tale: ascensione la ***, partenza a mezzanotte, ritorno a mezzanotte, appetito sulla vetta, colazione sul ghiacciaio, guida buona, spese sessanta lire» (p. 50). Nel ventitreesimo capitolo, Lioy si sofferma maggiormente sull’alpinismo. Nonostante i suoi amici Cesare Fiorio e Carlo Ratti organizzino ascensioni a gruppi di otto o di dieci persone, muniti solo di corde, Lioy afferma che per lui è preferibile arrampicare in solitaria, affidandosi «soltanto al proprio occhio d’aquila, al proprio braccio e al piede d’acciaio» (p. 209). In seguito, descrive accuratamente la sensazione avvertita alla conquista della cima: «E si è finalmente sopra a tutto, sopra a tutti, in cima! Quale improvviso mutamento allora! È come uno scatto brusco dell’anima. Certe volte per un momento vince una strana impressione di stupore, come nell’istante in cui dall’alto si slancia un salto per tuffarsi nell’onda. Certe volte è un senso di meraviglia come ad essere usciti dall’acqua, da una grotta, o da un carcere» (p. 327).

 

[Clementina Greco, 25 giugno 2024]

Ultimo aggiornamento

06.02.2025

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