Nasce a Vienna nel 1863. Muore nel 1945. Si ricorda per aver compiuto la traversata dell’Olperer (1884) e del Mönch (1885) con August Lorria; per aver effettuato la prima ascensione dell’Hoher Dachstein (1884), della parete Est del Gran Pilastro (1884), della parete Nord-Ovest del Gross Mörchner (1884), della parete Sud-Ovest del Dent Blanche (1885), della parete Sud-Ovest del Grossvenediger (1885), della parete Ovest del Cervino con August Lorria (1887), della parete Nord-Ovest del Grossvenediger (1891) e della parete Est del Grossglockner (1891). Scrive Jungborn, Wien, Österreichischer Alpenclub, 1922.
Titolo: Jungborn
Luogo di edizione: Wien
Casa editrice: Österreichischer Alpenclub
Anno di pubblicazione: 1922
Edizione di riferimento: Fontana di giovinezza: volume I, Milano, L’Eroica, 1932; Fontana di giovinezza: volume II, Milano, L’Eroica, 1933.
L’opera inizia con un Preludio in cui l’autore espone la sua idea di alpinismo e si rivolge, in particolare, ai giovani scrivendo: «Il mio richiamo vale per voi, che, stanchi di tutta la lacerazione interiore, vi dedicate alla montagna con tutto il vostro essere e i vostri sforzi, agognate a restare totali o a divenire totalità come sono le Alpi» (pp. 7-8). Cita Nietzsche e Tasso come suoi modelli e paragona il suo libro a un «grido per la libertà senza vincoli, per la personalità dominatrice di sé, per la più intima verità» (p. 11). È interessante come Lammer distingua due tipologie di alpinisti, l’estetico e il cavalleresco ‒ «L’uno è contemplazione e sete di bellezza, l’altro azione e avventura» (p. 12) ‒, per poi collocarsi nella seconda fattispecie. La prima parte del volume, intitolata Escursioni e quadri della montagna, racconta la traversata dell’Olperer fino al Fusstein, l’ascensione del Gran Pilastro, della Zsigmondyspitze con Oscar Schuster, del Grossvenediger, del Wiesbachhorn, della Wildspitze, della Thurwieserspitze ‒ durante cui cade in un crepaccio ‒ del Gran Mörchner con la moglie Paula e del Cervino con August Lorria, quando i due vengono travolti da una valanga. Il libro si conclude con il racconto delle ascensioni dello Zinalrothorn, che «doveva offrire una scuola rude» (p. 276) e del Weisshorn. Nel decimo capitolo, Lammer riferisce come la compagine alpinistica britannica, da lui molto ammirata, ‒ «essi furono i nostri luminosi modelli e precursori» (p. 290) ‒ abbia “condannato” la nuova generazione di alpinisti a cercare vie inedite nelle Ande o nell’Himalaya, poiché le pareti vergini delle Alpi si stanno ormai esaurendo. L’autore, però, si rivolge agli «anziani fatti stanchi» (p. 292) ed espone i suoi propositi: «noi inaspriremo la lotta sempre più in tutti i sensi: non soltanto vogliamo conquistare tutte le ascensioni umanamente attuabili in qualche modo, ma percorrere i monti in svariate direzioni, fare scalate a catene di parecchie cime, congiungere diverse cime in una sola giornata d’ascensione, fare escursioni d’inverno, con la nebbia, con la tormenta o in circostanze diversamente ostili; ascensioni senza nozione dei luoghi, soprattutto senza guida» (p. 293). Il mutamento dell’alpinismo «dallo sport come scoperta allo sport come azione» (p. 296) deve tradursi, secondo Lammer, in una trasformazione della letteratura alpina che deve farsi soggettiva, quasi intima, ma sempre veritiera e tendente alla bellezza.
In seguito, tratta delle ascensioni del Dent Blanche con August Lorria, del Mönch, durante la quale incontra Alexander Burgener che gli riferisce della caduta fatale di Emil Zsigmondy, del FIescherhörner e dello Schreckhorn. La seconda parte, intitolata Cose alpine e personali, raccoglie una serie di riflessioni personali, esistenziali e, ovviamente, alpinistiche. L’autore chiarisce, per esempio, di non aver mai ricercato il suicidio in montagna‒ «L’alpinista sportivo è agli antipodi spirituali del suicida» (p. 227) ‒, bensì l’energia vitale e la soddisfazione di sé. Nonostante sia interessato alla biologia, alla geologia e alla morfologia delle montagne, Lammer di fronte al mondo alpino afferma: «Davanti alla natura esterna il mio intimo si fa chiaro e l’anima delle cose esterne io la comprendo dal mio interno» (pp. 186-187). Seguono consigli tecnici, impressioni e considerazioni di vario genere, basati sul taylorismo, per i giovani lettori che intendono avvicinarsi al mondo dell’alpinismo. In particolare, secondo Lammer, «lo scalatore deve fare la massima economia con la sua provvista di forze, se vuole con esse dare prove grandi e grandissime» (p. 269), seguendo le tre fasi del modello organizzativo ideato da Frederick Taylor: l’analisi, la sintesi e il metodo. Ogni alpinista, a suo avviso, deve inoltre dominare la respirazione, prendersi cura della propria pelle, nutrirsi correttamente ed evitare di bere alcolici.
La scrittura di Lammer, che comprende numerose citazioni colte ed epigrafi per ogni capitolo, è tendenzialmente paratattica e stilisticamente elegante. Alle descrizioni tecniche delle ascensioni si alternano con equilibrio quelle paesaggistiche e le riflessioni personali. L’autore arrampica senza l’ausilio di chiodi, staffe o altri arnesi del mestiere, quindi effettua esclusivamente scalate in libera, rifiutando perfino l’aiuto di guide. Si prepara alle ascensioni consultando cartine e mappe geografiche, ma talvolta incappa in dati errati ‒ o, meglio, non aggiornati ‒ a causa del ritiro dei ghiacciai o delle modifiche delle pareti nevose. Nel capitolo Autoeducazione dello scalatore, contenuto nella seconda parte dell’opera, l’autore individua nella forza di volontà la caratteristica principale dell’alpinista e nella letteratura, così come nell’allenamento, le basi per preparare ogni scalata. Nel settimo capitolo e, in particolare, nel paragrafo intitolato Parole d’un uomo senza vincoli, Lammer difende la sua scelta di effettuare ascensioni senza l’adozione di corde d’assicurazione, affermando di apprezzare realmente la sua vita solo nelle occasioni in cui mette a repentaglio la sua esistenza.
Per quel che riguarda il senso della pratica alpinistica di particolare interesse è il citato Preludio, in cui l’autore afferma: «nell’arrampicata e nell’ascensione, nella rude avventura e nella vittoria sui pericoli consistette sempre per me il godimento dolceamaro e più saporoso dell’alpinismo» (p. 13), insistendo più volte sul considerarlo uno sport basato sul «giocare la vita» (p. 18). Nel primo capitolo, inoltre, afferma di essere «divenuto più forte dell’onnipotenza divina» (p. 34) dopo aver compiuto una prima ascensione o dopo aver conquistato una parete. Con acume, d’altro canto, l’autore avverte la contraddizione, ancor più profonda oggi, della pratica alpinistica: «Ciò che noi apprezziamo e cerchiamo sui monti è la natura intatta, gli elementi scatenati, la solitudine dove aleggia il mistero. Ed ora allettiamo e rimorchiamo lassù milioni di persone, costruiamo rifugi chiassosi, passeggiate sulle cime con abominevoli funicolari e stillicidi d’olio, ci rendiamo colpevoli di ferrovie di montagna, e coscientemente calpestiamo tutto» (p. 21).
[Clementina Greco, 4 novembre 2024]
Ultimo aggiornamento
06.02.2025