Nasce il 6 settembre 1847 a Saint-Étienne, in Francia, ma presto si trasferisce a Basilea per fare da apprendista a suo padre Jean Claude, un noto fotografo. Il suo amore per la montagna trae origine da un suo zio, botanico, che spesso gli racconta delle sue ricerche e di altre avventure sulle Alpi. Nel 1868 si trasferisce a Vevey dove inizia a insegnare francese e, soprattutto, dove può dedicarsi all’alpinismo. Riguardo a quest’ultimo scrive numerosi articoli su riviste specializzate. Uomo di eccezionale cultura, approfondisce tanto l’entomologia quanto la letteratura tedesca, tanto la filosofia quanto la pittura. Muore nel 1883. Si ricorda per aver scalato per primo la cima dei Dents du Midi (1870), la Pointe de Zinal (1876) e il Tour Noir (1876).
Titolo: Souvenirs d’une alpiniste
Luogo di edizione: Losanna
Casa editrice: Arthur Imer
Anno di pubblicazione: 1886
Edizione italiana di riferimento: Ghiacciai e vette, trad. Ettore Cozzani, Milano, L’Eroica, 1947.
Il volume viene organizzato e pubblicato postumo da Eugéne Rambert che struttura il libro in dodici capitoli. Nel primo, La Dent du Midi, Javelle si dichiara agli antipodi di grandi alpinisti come Rodolph Töpffer, John Tyndall, Claude Calame e Horace Bénédict de Saussure, rispetto ai quali si sente «inutile» (p. 17) poiché, a differenza loro, egli compie ascensioni senza alcuno scopo tecnico o scientifico. In seguito, racconta le sue ascensioni sul Cervino, sul massiccio del Trient – effettuate senza guide e senza portatori –, sul Tour Noir, sul Weisshorn con la guida Peter Knubel, sul Rothhorn e sulla Dent d’Hérens. Le pagine sono popolate di mandriani, di amici, di guide e di persone locali, descritte con dovizia di particolari. Secondo l’autore, le scalate aprono le porte del pittoresco e del sublime, tanto che «dovunque ci sia una bellezza da raggiungere, egli va. […]. Erra per contemplare» (p. 11). Gli alpinisti, per Javelle, devono «salire più alti, sempre più alti, librarsi come a volo sopra il mondo!» (p. 74). La sua scrittura, che si fonda su «semplicità, naturalezza e trasparenza dell’espressione» (p. 9), corre parallelamente all’interesse per la montagna. Nel testo ci sono numerose citazioni colte, perlopiù poetiche, che si inseriscono agevolmente in una prosa descrittiva elegante e raffinata. La preparazione di Javelle in qualità di fotografo si riflette sulla scrittura che si sofferma a più riprese sulle luci, sulle ombre e sui colori dei luoghi delineati. Prepara le sue ascensioni studiando le carte a disposizione, ipotizzando possibili itinerari. Arrampica con scarponi, corda e piccozza. Javelle fornisce pochi dettagli tecnici ma, in compenso, dà conto delle ascensioni che hanno preceduto le sue. Interessante il passo in cui Javelle commenta con rammarico la costante antropomorfizzazione montana: «Champéry è un villaggio quasi per intero di villette; se ne costruiscono ogni giorno e tutte son le più sontuose delle altre, perché il lusso vi è portato a fondo; e non tarderà a venire il giorno in cui (facile previsione) non essendo più sufficienti gli abeti, si vedranno comparire le case di pietra e i muri tirati a pulimento con la calce; e davanti all’intonaco, davanti al progresso, addio per sempre il pittoresco!» (p. 21). La «marea di quel che si chiama progresso» (p. 190), per Javelle, investe la montagna con le sue popolazioni locali, le tradizioni, la flora e la fauna con tutta la sua forza distruttiva. Riguardo al raggiungimento della vetta, invece, Javelle afferma: «C'è ben altro che una soddisfazione dell'orgoglio, a mettere il piede su una sommità ove nessuno l'ha posato ancora. […]. Allora ci si sente come investiti d'una funzione religiosa; sembra che ci sia qualche cosa di sacro in questo istante in cui si compiono su un punto nuovo le nozze della terra e dell'uomo» (p. 232).
[Clementina Greco, 4 maggio 2024]
Ultimo aggiornamento
09.04.2025