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Gervasutti Giusto (1909-1946)

Nato a Cervignano del Friuli il 17 aprile 1909 da una famiglia di modesti commercianti, svolge il servizio militare a Cuneo come sottotenente nell’artiglieria di montagna. A ventidue anni si trasferisce a Torino per studiare, ma dopo un solo anno abbandona l’Istituto Tecnico Industriale Avogadro per dedicarsi esclusivamente all’alpinismo. Viene soprannominato “il Fortissimo” per le sue scalate eccezionali. Nel 1933 vince il Trofeo Mezzalama con la sua squadra per una gara di scialpinismo in tecnica classica sul Monte Rosa. Il 16 settembre 1946 muore sul Mont Blanc du Tacul, a causa di una corda doppia incastrata, durante una scalata effettuata insieme a Giuseppe Gagliardone. Scrive con Renato Chabod il volume Alpinismo, Roma, CAI, 1935; l’autobiografia Scalate nelle Alpi, Torino, Il Verdone, 1945. Tra le prime ascensioni più significative ricordiamo: lo Sperone Est-Nord-est della Cima di Valbona (1933); la Parete Ovest e Cresta Sud-Ovest della Torre Re Alberto (1933); il Couloir Gervasutti – Tour Ronde (1934); il Couloir Gervasutti ‒ Mont Blanc du Tacul (1934); la Parete Nord-Ovest del Pic d’Olan (1934); lo Spigolo Sud della Punta Allievi (1934); il Pic Adolphe (1935); la Cresta Sud del Pic Gaspard (1935). Le vie più importanti da lui aperte sono: Devies-Gervasutti sull’Ailefroide Occidentale (1936); Gervasutti-Boccalatte sulla Punta Gugliermina (1938); Bollini-Gervasutti sul Monte Bianco / Pilone Nord del Freney (1940); Gervasutti sulle Grandes Jorasses (1942), Gervasutti sul Pic Adolphe (1944); Gervasutti sul Petit Capucin (1946).

 

Titolo: Scalate nelle Alpi

Luogo di edizione: Torino

Casa editrice: Il Verdone

Anno di pubblicazione: 1945

Edizione italiana di riferimento: Scalate nelle Alpi, Torino, SEI, 1961.

 

Il volume di Gervasutti è un fototesto costituito da ventitré tavole ‒ l’indice di queste, peraltro titolate, è collocato in fondo al libro ‒ e dodici capitoli privi di titolo. Testo e immagini sono in stretta relazione e sembra che si completino vicendevolmente. Le porzioni di testo presentano delle cesure, rappresentate emblematicamente da uno spazio bianco, e si alternano alle fotografie che sono tutte in bianco e nero.  L’autore inizia con una riflessione sulle origini della sua passione alpinistica che, non riuscendo a darle dei connotati precisi, definisce come l’effetto di una «spinta inconscia della fantasia» (p. 6). Fin da piccolo, le montagne dell’alta Carnia dove trascorre le vacanze lo affascinano e gli dischiudono «il piacere di poter salire un pendìo senza stancarsi» (Ibidem), «con la decisa volontà di vincere quei timori e quelle difficoltà che dominano le genti delle valli» (p. 7). Imitando guardiacaccia locali, Gervasutti inizia a scalare con un bastone ferrato ma ben presto si munisce di corda per scalare la Cima Ovest di Lavaredo e la Cima di Val Montanaia. Sulla vetta di quest’ultima «il desiderio di altre mete in terre lontane ancora sconosciute e vergini si acuì nell’animo come una sofferenza» (p. 11). L’anno successivo, Gervasutti scala la parete Nord del Monte Siera con due amici in otto ore. A ventun anni compie delle ascensioni negli Alti Tauri insieme all’ingegner Stegagno, «gran fautore delle salite di neve e di ghiaccio» (p. 14), grazie al quale impara la tecnica sul ghiaccio. In tal modo, afferma l’autore, «il ponte di collegamento con le Alpi occidentali è gettato» (Ibidem). L’anno successivo, una volta trasferitosi a Milano, parte con Emilio Lupotto per Chamonix, dove vede la statua dedicata a De Saussure e Balmat ‒ il vero conquistatore del Monte Bianco, a detta di Gervasutti. Da Chamonix parte per compiere l’ascensione dell’Aiguille Verte dove il maltempo e i segni delle slavine rendono imprudente la salita ma, spiega l’autore, «il pericolo eccita le forze del buon combattente, lo isola dai legami del mondo, fa scomparire il peso della materia» (p. 25), decidendo così di proseguire. Poi è la volta del Dru ma da qui lui e Lupotto sono costretti a ritirarsi per una violenta grandinata, durante la quale Gervasutti viene colpito al gomito da un fulmine. In seguito, riparte per le Tre Cime di Lavaredo con Bruno Boiti, sulle cui vie classiche Gervasutti cerca «confronti tecnici» (p. 32) che sente «necessari per poter giungere razionalmente a possedere una perfetta e serena coscienza» (p. 33) di sé e delle sue capacità. Nel secondo capitolo racconta le imprese alpinistiche compiute nel 1932 con i compagni di Torino: la Nordend con Emanuele Andreis Paolo Ceresa; la cresta di Furggen al Cervino con Gabriele Boccalatte, Matteo Gallo e Guido Derege senza assicurazione; l’Auguille Verte con Renato Chabod e Boccalatte; l’Aiguille del Moine in solitaria; le placche attorno alla Capanna Lechaud, sulle quali Boccalatte resta ferito alla testa; la Torre Coldai con Boiti e la sfortunata scalata del Civetta con il tedesco Vittorio Schweiger che si frattura una gamba durante la ritirata; la salita al Sass Maor con Boccalatte, infine, nel settembre 1932. Il terzo capitolo si apre con una riflessione di Gervasutti sulle differenze tra l’alpinismo delle Alpi Occidentali e quello delle Alpi Orientali, vedendo in queste ultime un’attività più avanzata sia per equipaggiamento che per mentalità con cui si affrontano qui le ascensioni. Il suo ragionamento ben si colloca all’interno della più ampia polemica tra “occidentalisti” e “orientalisti” che caratterizza gli anni Trenta del Novecento. L’autore prosegue con il racconto della traversata dell’Aiguilles du Diable con Boccalatte Ninì Pietrasanta, della ripetizione della cresta sud dell’Aiguille Noire con Piero Zanetti e del tentativo di scalata della parete Nord delle Grandes Jorasses, sempre con Zanetti, nell’estate del 1933. Nel quarto capitolo, Gervasutti critica aspramente il Club Alpino Accademico definendolo «una specie di museo dell’alpinismo italiano» (p. 95) svuotato dalla sua «funzione principale e cioè di forza motrice di tutto l’alpinismo» (Ibidem) italiano. Le lodevoli iniziative delle sezioni locali ‒ da quanto riporta l’autore ‒ sono fiaccate dal problema finanziario ma, ciononostante, nell’ottobre 1933 la sezione di Torino abbina una spedizione alpinistica extraeuropea a una crociera turistica in America meridionale. Gervasutti parte con Boccalatte, Chabod, i Ceresa, Zanetti, Ghiglione, Binaghi, Brunner e Bonaccossa. Il gruppo, però, si divide a causa di un incidente avvenuto sul Tronador in Patagonia a Matteoda e Durando, per cui Gervasutti resta a disposizione dell’Ambasciata con Bonaccossa e Binaghi. Risultano interessanti le brevi descrizioni che l’autore offre dei paesaggi montani ancora piuttosto incontaminati del Sudamerica. Nonostante il maltempo e molte difficoltà logistiche, Gervasutti e Binaghi riescono a compiere alcune notevoli ascensioni su vette inviolate e innominate, alte più di 5000 metri. Nel quinto capitolo, Gervasutti restituisce al lettore il clima di competizione tra più nazioni europee per aggiudicarsi la scalata della parete Nord delle Grandes Jorasses ‒ da lui intrapresa con Renato Chabod ‒, che vede la morte del tedesco Peter Haringer. È interessante come l’autore registri di sentirsi «stranamente attratto dalla voragine» (p. 125) durante la ritirata. Dopodiché, Gervasutti si reca con Lucien Devies nel Delfinato per attaccare il Pic d’Olan. Il capitolo seguente è dedicato alla conquista della parete nord delle Grandes Jorasses con Renato Chabod, avvenuta nel 1935, vincendo su altre cordate straniere che salgono contemporaneamente. Di questa eccezionale impresa, Gervasutti descrive ogni dettaglio, mettendo in risalto le difficoltà tecniche aggravate dal maltempo. Seguono l’ascensione alla cresta des Hirondelles ‒ con Rivero, Piolti, Sarfatti, Plazzo e Devies ‒ e quella al Pic Gaspard solo con Devies. Gervasutti racconta, inoltre, l’ascensione della parete nord dell’Ailefroide, nell’estate 1936 con Devies, ma registra anche un’importantissima novità nel suo equipaggiamento «che rivoluzionerà completamente tutta la tecnica delle scalate nelle Alpi occidentali: le scarpe con la suola di gomma che sostituiscono le scarpe chiodate» (p. 177). Gervasutti dà spazio poi alla salita in solitaria del Cervino dal versante italiano ed è interessante la riflessione che precede l’impresa: «l’idea dell’azione vicina suscita in me strane sensazioni e contrastanti pensieri. Provo una grande commiserazione per i piccoli uomini, che penano rinchiusi nel recinto sociale […] e che non sanno e non sentono ciò che io sono e sento in questo momento. Ieri ero come loro, tra qualche giorno ritornerò come loro. Ma oggi, oggi sono un prigioniero che ha ritrovato la sua libertà. Domani sarò un gran signore che comanderà alla vita e alla morte, alle stelle e agli elementi» (p. 191). Nel capitolo successivo, l’autore afferma di trascorrere delle giornate con il Groupe Haute Montagne a Chamonix nell’agosto del 1937 per poi scalare, con l’amico Devies, il Requin e la parete nord del Petit Drû. Le pagine seguenti sono dedicate al tentativo di ascensione dello spigolo Walker sulla parete nord delle Grandes Jorasses nel 1938 ‒ soffiato per poco da Riccardo Cassin e compagni ‒ e alla salita della parete sud-sud-ovest del Picco Guglielmina con Boccalatte. Dopodiché, l’autore descrive l’ascensione al Monte Bianco con Paolo Bollini e quella della parete est delle Grandes Jorasses con Giuseppe Gagliardone durante la Seconda guerra mondiale. Nell’ultimo capitolo, Gervasutti tenta di fare un bilancio della sua attività da alpinista e si interroga sulle motivazioni che lo portano così ardentemente da una montagna all’altra, insistendo sulla soggettività della pratica alpinistica che «permette a degli uomini di esprimere con quel mezzo o di soddisfare mediante quel mezzo un bisogno del proprio animo» (p. 251). Conclude il volume con un invito rivolto ai giovani alpinisti: «osa, osa sempre e sarai simile ad un dio» (p. 253).

Il linguaggio è comune e la prosa è caratterizzata da periodi brevi che descrivono nello specifico i passaggi tecnici delle ascensioni ma restituiscono poco sia dei paesaggi che delle sensazioni avvertite sulle vette conquistate. Dalla lettura del testo emerge chiaramente, infatti, quanto per Gervasutti sia più importante la lotta sulla parete che la conquista della cima.  «La parte contemplativa dell’alpinismo» (p. 252) ‒ secondo l’autore ‒ ha «il valore di un’interpretazione, mentre la creazione è riservata soltanto all’azione» (Ibidem). È interessante, inoltre, la riflessione sprezzante di Gervasutti sulle persone che affollano Chamonix: «io sono sempre stato fermamente convinto che tra gli esseri viventi che abitano la terra, l’uomo sia certamente il più brutto, ma ciò che si può osservare a Chamonix in fatto di campionario umano supera ogni immaginazione. L’ottanta per cento della gente che si vede a girare per le strade, la quasi totalità di quella che regolarmente sale al Montenvers a contaminare il ghiacciaio, sembra inviata qui per una mostra particolare, vestiti nei modi più sgraziati possibili» (p. 59). Numerose località montane ‒ da quanto viene descritto nel volume ‒ sono affollate da turisti provenienti dalle città, tanto che Gervasutti si compiace di poter giungere a delle altitudini non accessibili ai più. Il senso che ha per lui l’alpinismo viene espresso fin dalle prime pagine e riaffiora con coerenza durante il racconto delle sue ascensioni: «riguardando le mie montagne, quasi tutte più basse e tondeggianti, provai un senso di umiliazione. Là, sì che si sarebbe dovuto lottare per guadagnare le cime! È il primo passo verso quel desiderio prepotente dell’azione eroica ed inutile, che determina l’intima essenza dell’alpinismo, di quell’azione eroica ed inutile che ha sempre costituito la recondita necessità dello spirito umano fin dalle sue origini, per tutte le sue più nobili imprese, grandi o piccole che siano» (p. 7).

 

[Clementina Greco, 26 luglio 2024]

Ultimo aggiornamento

05.02.2025

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