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Diemberger Kurt (1932-)

Nasce a Villach nel 1932 e durante l’infanzia si appassiona ai fossili e ai cristalli. Nel 1955 si laurea in economia aziendale e comincia a lavorare come insegnante presso la Fremdenverkehrsakademie di Salisburgo. All’inizio degli anni Sessanta diventa guida alpina presso il Monte Bianco. Nel 1963 resta bloccato sulla cresta sud dell’Aiguille Noire, a causa di una tempesta, con la moglie Tona Sironi, ma i due vengono salvati da Bonatti, Panei, Zappelli, Gallieni e Bertone. Alla fine del decennio, Diemberger diventa cineoperatore e documentarista d’alta quota grazie a cui ottiene, nel 1989, il premio la Genziana d’oro al Festival internazionale film della montagna di Trento con il film K2 – sogno e destino. Nel 2006 riceve la medaglia d’oro per i servizi alla Repubblica d’Austria mentre nel 2013 viene premiato con il prestigioso Piolet d’Or alla carriera alpinistica. Attualmente vive presso Bologna con la moglie e il figlio. Si ricorda, tra le varie imprese, per: la prima ascensione del Gran Zebrù dalla parete Nord (1956) con Herbert Knapp e Hannes Unterweger; la prima ascensione al Broad Peak (1957) con Hermann Buhl, Marcus Schmuck e Fritz Wintersteller; l’integrale di Peuterey con Franz Lindner (1958); la prima ascensione del Dhaulagiri I (1960); la scalata del Tirich Mich (1967); la prima ascensione dello Shartse (1974) con Hermann Warth; la scalata del Makalu (1978) e la scalata dell’Everest (1978). Ha scritto: K2: Traum und Schicksal, der Berg, der Berge, München, Bruckmann, 1989 (con il quale vince il Premio Itas nello stesso anno); Gipfel und Gefährten zwischen Null und Achttausend, München, Bruckmann, 2001; Der siebte Sinn, Zürich, AS, 2004; Aufbruch ins Ungewisse : Abenteuer zwischen K2, Sinkiang und Amazonas, München, Malik, 2004 e Seiltanz. Die Geschichten meines Lebens, München, Malik, 2007.

 

Titolo: K2: Traum und Schicksal, der Berg, der Berge

Luogo di edizione: München

Casa editrice: Bruckmann

Anno di pubblicazione: 1989

Edizione italiana di riferimento: K2 Il nodo infinito. Sogno e destino, trad. Maria Antonia Sironi, Milano, Corbaccio, 2000.

 

Il fototesto di Diemberger racconta con parole ed immagini la tragica avventura sul K2 ‒ «la montagna terribile, repulsiva ed affascinante più di ogni altra» (p. 5) ‒, compiuta nel 1986 dall’autore stesso e Julie Tullis, alpinista e filmmaker britannica che trova qui la morte per edema cerebrale. Le centoventotto fotografie, prevalentemente a colori, arricchiscono il testo, accompagnando la narrazione e favorendone la visualizzazione durante la lettura. Sono numerose, inoltre, le inserzioni di frasi scritte da Tullis ‒ segnalate da delle virgolette ‒ che Diemberger ha tratto dai suoi appunti. Il libro è corredato da una tabella riguardante tutte le spedizioni effettuate al K2 da Marco Polo al 1992; una, scritta da Xavier Eguskitza, che elenca gli alpinisti che hanno scalato la montagna; una che dà conto di coloro che vi hanno perso la vita; un’appendice, scritta da Roberto Mantovani, che ricostruisce le spedizioni dal 1993 al 2000 e, infine, una bibliografia.

La narrazione inizia immediatamente con una prolessi che racconta dell’arrivo in vetta al K2 sia di Diemberger che di Tullis e ciò rappresenta un caso piuttosto singolare all’interno della letteratura alpinistica, poiché solitamente il lettore viene prima reso partecipe delle fasi di ideazione, progettazione e organizzazione dell’ascesa, nonché dei passaggi salienti dell’attacco alla parete che conduce alla cima. Il secondo capitolo ci riporta al maggio 1957, quando Diemberger, Hermann Buhl, Markus Schmuck e Fritz Wintersteller scalano per la prima volta il Broad Peak. Dopodiché, lo scrittore riferisce il suo incontro con Julie Tullis nel 1975 durante un giro di conferenze riguardanti l’alpinismo e così la descrive: «Un’esploratrice nata. Non credo che esistesse nulla per il quale Julie non aveva voglia e coraggio» (p. 27). L’asticella temporale si sposta ancora, stavolta al 1983, quando Diemberger partecipa come cineoperatore insieme a Tullis ‒ costituendo il «film-team più alto del mondo» (p. 51) ‒ alla spedizione italiana internazionale al versante Shaksgam del K2. È estremamente interessante che Diemberger riconduca, come scrive nel paragrafo emblematicamente intitolato Un libro fatale, l’origine della sua ossessione per il versante nord del K2 alla lettura di un libro: Blank on the map di Eric Shipton del 1937, in cui l’alpinista britannico descrive questo spigolo, visto dal basso, come una parte magica e misteriosa della montagna. Dopo qualche considerazione riguardo alla sua vita familiare a Bologna, l’autore spiega brevemente come sia stata organizzata e finanziata la spedizione al Broad Peak e al K2 del 1984, sotto la guida dello svizzero Stefan Wörner, per poi raccontarne dettagliatamente le ascensioni: la prima rischia di rivelarsi una tragedia a causa di una valanga ‒ che riporta Diemberger e la narrazione alla tormenta che nel 1957 sul Chogolisa aveva investito lui e Hermann Buhl ‒, la seconda, paragonata al gioco dello yo-yo che porta i due su e giù per lo sperone Abruzzi, si interrompe a 7350 m. L’autore non viene fiaccato dalla sconfitta e scrive: «Si può essere “a casa” fra le nuvole? Da due anni il K2 è la nostra montagna, anche se non ne abbiamo raggiunto la cima. Viviamo con lei e lei è sempre presente nei nostri pensieri» (p. 67). Improvvisamente il racconto si interrompe con l’inserzione di una pagina, intitolata Perché, in cui una riflessione in prosa ha la parvenza di un testo poetico, come se Diemberger volesse isolare ed evidenziare la sua introspezione. Si interroga, dunque, sul motivo che lo spinge a tornare e a ritornare sul K2, così rispondendo: «Perché una montagna può / portare all’uomo conoscenze e dimensioni delle / quali non avrebbe neppure l’idea. […]. Dove tutto può essere, io vado» (p. 71). Dopo aver descritto la vita presso il villaggio tibetano di Tashigang, l’autore lascia lo spazio di un capitolo ‒ intitolato Jinlab, la magia della montagna ‒ alla figlia Hildegard, che vi abita con il fidanzato Christian. L’etnologa offre, quindi, un interessante punto di vista sul rapporto tra uomo e montagna, astraendolo da una prospettiva tipicamente europea e scrive: «Le montagne, sede delle forze della fertilità, sono ponte fra cielo e terra, come a Tashigang dove Everest e Makalu sono “grande madre e grande padre del continente”. […]. Oggi le montagne sono meta di avventure alpinistiche, forse violazione di posti sacri e segreti, senz’altro motivo di nuove relazioni economiche e sociali, e forse anche altro… Come ogni montagna ha la sua personalità, la sua “Ausstrahlung”, così il modo di viverla dipende da chi sei […]. Tu vivi le montagne all’interno del tuo orizzonte culturale e il tuo rapporto con loro dipende intimamente dal tuo rapporto con te stesso e con il mondo» (p. 82). Hildegard racconta, inoltre, che la suora tibetana Anila, con cui si è confrontata proprio riguardo a questo tema, ha definito “Jinlab”, cioè magia, «la luce, il calore che la montagna trasmette se tu la ami, se la vivi fino in fondo» (p. 84). Diemberger riprende finalmente la narrazione dell’ascensione del versante del K2, presentata brevemente all’inizio del libro, con una spedizione italiana, “Quota 8000”, guidata da Augusto da Polenza e Gianni Calcagno nel maggio 1986. Giunto al campo base sulla morena ai piedi del K2, l’autore rimane colpito dal sovraffollamento di attrezzature, di alpinisti e soprattutto di tende: «Anche queste sono uno sciame, anzi molti sciami […]. Da una tenda all’altra rimbalzano gli inviti, rappresentanti di diverse nazioni si incontrano per un tè o un caffè. […]. Vi sono rappresentati tutti i modi e gli stili di salire la montagna. […]. Penso che parlare di “giungla moderna delle spedizioni” sia l’unico modo per tratteggiare veridicamente la situazione che oggi si trova nei punti caldi dell’Himalaya» (pp. 89-90). La coesistenza di quattordici gruppi complica la situazione al campo base e Diemberger riporta chiaramente alcune irregolarità commesse dal gruppo tedesco, i tentativi da parte del Ministero del turismo pakistano di controllare l’«assalto alle montagne» (p. 94), lo spirito di competizione e i pericoli dovuti alla sottovalutazione del territorio per la presenza di altri alpinisti. In questo clima ottimista ma teso, perdono la vita Al Pennington e John Smolish per una valanga, con la conseguente interruzione della spedizione da parte degli americani. Solo tre giorni dopo è la volta dei coniugi Maurice e Liliane Barrard, scomparsi durante la discesa, e Diemberger riflette sul possibile ruolo giocato dal sonnifero preso da Wanda Rutkiewicz e, forse, dai Barrard durante il bivacco in discesa a 8300 metri. Muoiono anche Tadeusz Piotrowski, che perde entrambi i ramponi e cade nell’abisso di fronte al compagno Jurek Kukuczka, e Renato Casarotto che, come vede e descrive Diemberger, scompare all’improvviso in un crepaccio. Qui Casarotto riesce a mettersi in contatto con la moglie Goretta Traverso tramite un walkie-talkie e Diemberger improvvisa una squadra di soccorso ma il tentativo risulta vano: queste pagine cariche di amarezza e di intima angoscia trasmettono al lettore tutti i dubbi, i sensi di colpa, le paure provate dall’autore che, nonostante tutto, orchestra i suoi ragionamenti in modo tale da giustificare il suo persistente desiderio di scalare la «montagna-sogno» (p. 126) e di trascinare con sé Julie Tullis, titubante e sfiduciata. Durante la salita, una valanga spazza via il campo 3 e il campo 4, provocando il temporaneo ammutinamento dei portatori che, su insistenza del gruppo dei coreani, proseguono intimoriti. Tullis e Diemberger continuano con alcuni austriaci, coreani, inglesi e polacchi ma, come riferisce l’autore, un equivoco tra austriaci e coreani fa sì che ci siano troppe persone per il numero di tende disponibili. Diemberger ricostruisce, quindi, una concatenazione di errori di valutazione, di comunicazione, di organizzazione e di gestione delle emozioni che, sommata alla sfortuna, porta alla tragedia. Prima che Diemberger e Tullis raggiungano la vetta, muoiono anche il polacco Wojciech Wróz, cadendo durante la discesa sul collo di bottiglia perché uno degli alpinisti coreani aveva accorciato un pezzo di corda, lasciando penzolare un capo, e il pakistano Muhammad Ali per una scarica di sassi. Ben sette alpinisti, tra cui l’autore, rimangono bloccati sulla spalla del K2 a causa di una terribile bufera e in questo frangente, con pochi mezzi e con poche tende, muoiono anche Julie Tullis, Alan Rouse, Hannes Wieser, Alfred Imitzer e Mrówka. La narrazione si conclude con il ritorno dell’autore, con la conseguente amputazione di alcune dita della mano destra, e con un ultimo pensiero rivolto a Julie.

La sintassi marcatamente paratattica dà luogo a un ritmo rapido e incalzante, mentre il lessico è comune. La lettura è piacevole, ricca di suspense e il lettore si ritrova inevitabilmente a empatizzare con gli alpinisti rappresentati dall’autore che dimostra sensibilità e acume. Riguardo all’attrezzatura, Diemberger usa le bombole d’ossigeno, tende da bivacco, sacchi-piuma, scarponi di cuoio, il walkie-talkie, le racchette, il jumar e il discensore. È interessante la riflessione di Diemberger sulle ascensioni rapide, in occasione della scalata del Broad Peak da parte di Benoît Chamoux in un solo giorno: «Il “corridore di montagna” non può anche fare la traccia, piantare i campi alti, fermarsi in caso di maltempo. Tutto ciò riguarda il gruppo che lo precede. A lui resta la prestazione sportiva che in ogni caso è di tutto rispetto. Quale e quanto significato abbia tutto ciò anche dal punto di vista alpinistico resta una questione aperta. […]. Per lui l’impresa diventa piuttosto una “corsa sportiva”, diventa una sorta di centometrista che sale» (p. 98). Al principio del volume, Diemberger scrive: «Una montagna è un “qualche cosa”, ma che cosa sia realmente non lo si sa mai» (p. 12) e nel corso del volume traspare a più riprese questa indefinitezza di senso. Pur avendo dichiarato che «La cima non è tutto» (p. 67), l’autore, una volta salito sul Broad Peak, avverte quella che chiama «la magia della cima» (p. 69), ovverosia un’inebriante estasi che gli permette di ammirare la bellezza del paesaggio, di emozionarsi fino al pianto e di sentirsi in armonia con la natura. Chiarisce più volte, però, nel corso del libro, di avvertire il possesso della montagna non dopo averne scalato la vetta ma soltanto in seguito al completamento della discesa. Diemberger sottolinea la tangenza tra la terminologia alpinistica e quella militare, esemplificata da parole come «attacco, conquista, vittoria» (p. 180) ma, commenta, «mai una cima è stata veramente “vinta”, ed i vincitori sono soltanto esseri umani che con abilità, forza e fortuna hanno vinto un gioco che, per alcuni di essi, tuttavia, simboleggia l’inspiegabile senso dell’essere» (Ibidem). Nonostante sia assente una riflessione ecologica in merito, Diemberger registra nostalgicamente una modifica avvenuta tra il 1957 e il 1984 sul Broad Peak: «Ci siamo rimessi a salire su una cresta che però dal 1957 è cambiata profondamente: dove allora usavamo i bastoncini da sci, adesso c’è da arrampicare lungo una cresta affilata di roccia in continua esposizione. Dappertutto il ghiaccio si è ritirato o addirittura sparito, ed il percorso è diventato molto più difficile. Irriconoscibile. Anche per una montagna, quindi, 27 anni possono significare qualche cosa» (p. 68). Ancora più emblematiche sono, invece, due fotografie presenti a p. 100: in una si notano le iscrizioni su un roccione di Urdokas lasciate dalle spedizioni nel corso di tre decenni; la seconda mostra un’ingente quantità di spazzatura abbandonata alla base del K2.

 

[Clementina Greco, 16 novembre 2024]

Ultimo aggiornamento

05.02.2025

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