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Desio Ardito (1897-2001)

L’opera, come già indicato dal frontespizio, contiene novantasette fotografie a colori e in bianco e nero fuori testo, a cui si aggiungono quattordici fotografie, cartine e schizzi nel testo. La dedica è rivolta «alla memoria di tutti i Caduti sul K2», la seconda montagna più alta del mondo ma statisticamente la più letale. Il volume, che racconta la prima ascensione del K2 nel 1954, è tra i più controversi e discussi della letteratura alpinistica, in particolare a causa di notevoli discrepanze circa la ricostruzione degli eventi tra le versioni di Ardito Desio e Walter Bonatti. Dopo articoli, denunce e polemiche, nel 2004 il CAI incarica Fosco Maraini, Alberto Monticone e Luigi Zanzi di condurre un’analisi documentale dei fatti che, in definitiva, porta all’accettazione della tesi di Bonatti. Nella prefazione dell’opera, Desio dichiara di aver strutturato il libro scegliendo una via mediana tra l’«amena lettura» (p. VII) e «un documentario» (Ibidem). Il corposo volume è costituito da: un indice delle cartine fuori testo; un indice delle fotografie, cartine e schizzi nel testo; una breve presentazione geografica del Karakorum; quattordici capitoli suddivisi in quattro parti ‒ I preliminari, La preparazione, L’esecuzione, Esplorazioni e ricerche scientifiche ‒; nove appendici tra cui si citano il giornale della spedizione, una relazione sulle condizioni metereologiche, un elenco sull’equipaggiamento e una bibliografia riguardante il Karakorum. Dopo aver dato conto dei tentativi precedenti di compiere la scalata del K2, a partire da Oscar Eckenstein e compagni nel 1902 fino a quella di Charles Houston del 1953, Desio chiarisce di essersi mosso per organizzare una spedizione al K2 fin dal 1937, smarcandosi così dal clima competitivo, tipico degli anni Cinquanta, tra nazioni europee ed extraeuropee per la conquista degli Ottomila. Nella seconda parte del volume, Desio espone il piano generale della spedizione, ideato nel dicembre 1953, che ha due obiettivi principali: la conquista della vetta del K2 e la raccolta di dati, materiali e informazioni per l’illustrazione geografica, topografica, antropica, naturalistica e geologica della zona. L’impostazione è, come scrive egli stesso, «di tipo militare nel senso però noto a chi ha trascorso qualche tempo della sua vita ‒ specialmente in guerra ‒ nelle nostre truppe alpine. Disciplina assoluta suggerita a ciascuno dalla comprensione delle necessità superiori rivolte al raggiungimento della meta finale, la conquista del K2» (p. 58). Riguardo alla preparazione in Italia, l’autore si sofferma in particolare sulle difficoltà incontrate per ottenere un finanziamento di circa cento milioni di lire, sul reperimento dei viveri e dei materiali, nonché sulla scelta dei collaboratori scientifici ‒ un petrografo, un medico, un etnografo, un geofisico, un geodeta e un topografo ‒ e degli alpinisti attraverso una visita medica, un esame fisiologico, un campeggio sperimentale d’alta montagna sotto il Piccolo Cervino, un secondo campeggio sperimentale sul Monte Rosa. Vengono, così, selezionati gli alpinisti Enrico Abram, Ugo Angelino, Walter Bonatti, Achille Compagnoni, Cirillo Floreanini, Pino Gallotti, Lino Lacedelli, Mario Puchoz, Ubaldo Rey, Sergio Viotto e Gino Soldà. Oltre a loro, Desio invita a partecipare alla spedizione anche il cinematografista Mario Fantin, il medico Ata Ullah come osservatore del governo pakistano e il topografo Badshajan del Survey of Pakistan. Per festeggiare l’arrivo della compagine a Skardu, le persone del luogo organizzano una partita di polo, una di hockey e delle danze baltì, alla presenza del raja della città. L’autore descrive i farraginosi spostamenti fino al campo-base ‒ collocato nel centro del ghiacciaio Godwin Austen ‒ che vedono, tra l’altro, la diserzione di numerosi portatori. Prima di iniziare la scalata effettiva, Desio distribuisce una guida illustrata, qui riprodotta, contenente fotografie di Vittorio Sella e dettagli sulla posizione dei campi, sulla via di salita, sui tempi previsti e sui viveri necessari, gentilmente concessi dai predecessori Houston e Wiessner. Il gruppo viene scosso, però, da un’inaspettata tragedia: giunto al campo 2° con Compagnoni e Rey, Mario Puchoz muore a causa di un edema polmonare, ma l’evento non ferma l’impresa. Dopo aver deposto la salma di Puchoz presso il monumento a Gilkey, Desio riflette su come procedere e scrive: «Ma quale migliore onoranza poteva essere dedicata alla sua memoria se non la conquista del K2 per il quale egli si era immolato?» (p. 165). L’assalto alla vetta, però, viene rimandato per giorni e giorni a causa del maltempo, tanto che Desio inizia a ipotizzare la sostituzione degli uomini esauriti dal logoramento dell’attesa, salvo poi tornare sui suoi passi e procedere, al contrario, all’incitamento dei suoi alpinisti: «Ricordatevi che se riuscirete a scalare ‒ come io ho fiducia ‒ sarete citati in tutto il mondo come i più valorosi campioni della nostra razza ed il ricordo di voi si perpetuerà per tutta la vostra vita ed oltre, ed anche solo con quest’impresa potrete dire di avere bene spesa una vita» (p. 178). L’ottavo capitolo, intitolato L’assalto alla vetta, riporta fedelmente la relazione scritta da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, poiché Desio è costretto ad attendere notizie dal campo-base. In particolare ‒ e su questo, negli anni, si apre un aspro dibattito ‒, Bonatti, Abram e l’hunza Mahdi hanno il compito, il 30 luglio, di portare le bombole d’ossigeno ai due uomini di punta, accampati presso il campo 9° ma, calato il buio, Compagnoni e Lacedelli sentono urlare Bonatti, giunto prima dell’inizio della traversata delle placche, di riuscire a cavarsela da solo e si convincono che sia sceso insieme agli altri due. Questi ultimi, in verità, sono costretti a bivaccare a 8100 m senza tenda e senza sacco a pelo, durante una bufera: Mahdi, in stato confusionale, viene colpito da un grave congelamento agli arti e, in piena notte, scende al campo 8°. Lacedelli e Compagnoni recuperano le bombole d’ossigeno lasciate da Bonatti e Mahdi e attaccano la vetta con «30 metri di corda, le piccozze, i ramponi, una piccola macchina da presa, una macchinetta fotografica, zucchero e caramelle, un pacchetto di medicinali, una lampadina tascabile. Niente da bere» (p. 201). La descrizione dell’assalto alla vetta è ricca di suspense, soprattutto perché si legge che ben presto si esaurisce la prima bombola e, nel bel mezzo della cupola sommitale, si esaurisce ‒ e anche su questo si aprono, in seguito, numerose polemiche ‒ la seconda bombola. I due piantano una piccozza con la bandiera italiana, quella pakistana e un vessillo del Club Alpino Italiano, per poi iniziare la faticosa discesa. L’impresa, salutata dal giubilo internazionale, prosegue poi ‒ come viene raccontato nella quarta parte ‒ con le esplorazioni e le ricerche di carattere scientifico.

La prosa di Desio è facilmente comprensibile, sintatticamente lineare e congegnata sulla base di un fine evidentemente divulgativo. Talvolta sono presenti enunciati enfatici, soprattutto di carattere patriottico come: «L’onore dell’alpinismo italiano era nelle nostre mani» (p. 174). L’attrezzatura adottata da Desio e compagni è costituita da ramponi, piccozze, chiodi da roccia e da ghiaccio, moschettoni, corde di nylon e respiratori ad ossigeno a circuito aperto.  Nonostante sia assente una riflessione ecologica, Desio registra «numerose tracce nelle piazzole, nei resti di paletti da tende, nelle scatole vuote» (p. 134) lasciate dalla spedizione del Duca degli Abruzzi nel 1909. D’altronde, nel decimo capitolo, l’autore ammette di aver dato l’indicazione, dopo la conquista della vetta, di abbandonare sul luogo tutto il superfluo, per tornare rapidamente al campo-base. Fin dalla prefazione, Desio chiarisce la sua concezione alpinistica: «Chi ama in purezza la montagna, fonte di gioia serena e di perfezionamento spirituale, chi ama la natura con le sue leggi eterne ed i suoi enigmi, chi sente il fascino misterioso dell’ignoto, della scoperta, dell’avventura e riesce a seguire e ad appagare i suoi impulsi, ha la vita […] già tanto piena di per sé stesa che nulla ha a desiderare al di fuori di quelle intime e supreme soddisfazioni. […]. Ebbene, fra le gioie più pure che mi danno questi viaggi […] sono quelle ore di serena meditazione che mi concedono le solitudini» (pp. VIII-IX).

 

[Clementina Greco, 21 novembre 2024]

Ultimo aggiornamento

05.02.2025

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