Figlio del noto scrittore Edmondo, nasce nel 1879, va a scuola a Torino e partecipa alla Prima guerra mondiale. Le sue passioni sono l’alpinismo e la letteratura. Le sue guide predilette sono Tita Piaz e Guido Rey che molto gli insegnano della tecnica alpinistica. È membro del Club Alpino Accademico Italiano e del GISM. Muore nel 1962. con Jean Baptiste Maquignaz e Pierre Antoine Maquignaz raggiunge la cresta sul Cervino che a lui sarà successivamente dedicata (1904); compie l’ascensione del Cervino con Giovanni Battista Gugliermina, Ettore Canzio, Giacomo Dumontel, Giuseppe Gugliermina e Giuseppe Lampugnani ma non raggiungono la vetta né lui né Giovanni Battista Guglielmina. Si ricorda per aver scritto Piccoli uomini e grandi montagne, Milano, Treves, 1924; Alpe mistica, Milano, Treves, 1926 e Cinematografia alpina a colori e suoni, Milano, Treves, 1930.
Titolo: Alpe mistica
Luogo di edizione: Milano
Casa editrice: Treves
Anno di pubblicazione: 1926
Il volume è costituito da ventidue capitoli, ognuno dei quali è introdotto da un’epigrafe. L’inizio della narrazione è piuttosto emblematico perché il protagonista-autore si reca in Valpellina per fare visita a un suo amico che vive appartato in un castello, dove un orologio a pendolo non segna i secondi, i minuti e le ore ma i morti a causa della modernità e del cosiddetto progresso. De Amicis, a quel punto, racconta di alcune sue ascensioni non come di imprese sportive ma come esperienze conoscitive della natura umana, della vita e della morte, tanto da non darne alcun dettaglio né cronologico né tecnico. In seguito, lui e la guida Carrel si recano sulla Dent d’Hérens per recuperare un alpinista deceduto e si dilunga in riflessioni filosofiche che lo portano a ricordare con ammirazione la figura intellettuale dell’imperatore Marco Aurelio. Nel sesto capitolo, intitolato La tunica del Petrarca, lo scrittore si sente accomunato al poeta aretino dall’«anima dell’alpinista mistico» (p. 75) che contempla la natura investendola di spiritualità. La Prima guerra mondiale è un tema rilevante all’interno del libro che però si concentra su storie di persone, legate in qualche modo allo scrittore, avvenute in montagna. In particolare, De Amicis, «affetto da borghesifobia» (p. 273), critica negativamente la mentalità e i comportamenti dei tipici frequentatori delle Alpi, i borghesi, che hanno il morbo della «pescecanite» (p. 150). Il sedicesimo capitolo, invece, è ‒ come spiega l’autore stesso ‒ una novella ispirata da uno psichiatra conosciuto in villeggiatura a Courmayeur. Nel ventesimo capitolo, De Amicis racconta di essere stato sul colle del Gigante da Montenevert con Guido Rey e due guide della Valtournanche, ma non fornisce particolari dettagli sull’ascensione, preferendo narrare puntualmente come a valle, a causa dei suoi abiti rovinati dall’impresa, sia stato scambiato per una guida. A tal proposito scrive: «io sono un alpinista, un po’ vanitoso come tutti gli alpinisti: il culmine dell’abilità per un alpinista è salire le montagne con la sicurezza e la resistenza d’una guida: scambiandomi per una guida, solleticavano nel modo più dolce la mia vanità d’alpinista» (pp. 271-272). Altrettanto interessante è la descrizione dell’Istituto Mosso sul colle d’Olen a 3000 metri d’altitudine, dove alcuni scienziati studiano le Alpi: i tre edifici moderni da cui è composto, sono meta di un turismo incontrollato che sconcerta l’autore così innamorato di quei luoghi incontaminati ‒ «scoppiano le mine, che livellano il largo spiazzo artificiale davanti all’albergo Stolemberg» (p. 286). Il volume si chiude con Il monte della vita in cui De Amicis narra il sogno di un’ascensione, caricata di valenze allegoriche, fatto in una notte sul colle del Miage. La narrazione è ricca di digressioni temporali perché De Amicis riporta numerosi ricordi che si mescolano a incontri, riflessioni filosofiche e religiose. La prosa è colta e raffinata, ma la lettura è talvolta faticosa a causa di una sintassi piuttosto complessa. Lo scrittore si sofferma più volte sui colori, sui suoni, sui profumi e sui paesaggi alpestri, le cui caratteristiche che più lo colpiscono sono «la vasta candidezza abbagliante e l’infinito silenzio» (p. 117). Qui, nel «celeste vertiginoso» (p. 183), l’alpinista può fuggire dai «contatti spirituali col mondo come da urti dolorosi o da viscidumi ripugnanti» (p. 181). De Amicis vede quindi, nella montagna, una fonte catartica per l’essere umano schiacciato «da quelle ore di opprimente pianura» (p. 105), tanto da affermare: «vorrei lavare il di dentro dell’umanità, portandola per qualche settimana a 3000 metri. Credo che purifichi non solo il corpo, ma lo spirito, quest’aria sottile, che frusta insieme i nervi e i sentimenti, e raddoppia con le pulsazioni del cuore le vibrazioni d’ogni ideale» (p. 290).
[Clementina Greco, 5 giugno 2024]
Ultimo aggiornamento
05.02.2025