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Cassin Riccardo (1909-2009)

Nasce nel 1909 presso San Vito al Tagliamento, un piccolo paesino del Friuli-Venezia Giulia, da una famiglia contadina. Perde il padre quando è ancora un bambino e cresce, così, con la madre e la sorella nella casa del nonno materno a Savorgnano: quei luoghi, però, vengono devastati dal primo conflitto mondiale. A dodici anni inizia a lavorare come fabbro per poi trasferirsi a Lecco nel 1926, dove comincia a scalare e, contemporaneamente, a dedicarsi al pugilato e allo scialpinismo. Nel 1938 riceve la medaglia d’oro al valore atletico al C.O.N.I. per l’impresa sulla parete nord-est del Pizzo Badile. Dal 1943 al 1945, Cassin partecipa alla Resistenza come partigiano del CVL dell’ottantanovesima Brigata “Poletti” per il Gruppo Rocciatori della Grigna e combatte a più riprese con le Brigate Nere. Il 27 aprile 1945, viene ferito sul volto e al braccio destro da repubblichini fascisti. Per la sua attività di partigiano, Cassin riceve la Croce di guerra al valor militare. Muore nel 2009. Si ricorda, tra le numerosissime scalate, per la prima ascensione della Guglia Angelina (1931); la prima ascensione dello spigolo nord del Sigaro Dones (1931); la prima ascensione della Corna di Medale (1931); la prima ascensione della Grignetta (1931); la prima ascensione del Pizzo d’Eghen (1932); la prima ascensione dello Zuccone dei Campelli (1933); la prima ascensione del Sasso Cavallo (1933); la prima ascensione del Cimone della Bagozza (1934); la prima ascensione della Piccolissima delle Cime di Lavaredo (1934); l’apertura di una via sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo (1935); la prima ascensione della Torre Trieste (1935); la prima salita della parete nord-est del Pizzo Badile (1937); la prima salita dello sperone Walker della parete nord delle Grandes Jorasses (1938); la prima ascensione dell’Aiguille Leschaux (1939); aver guidato la spedizione che porta alla prima ascensione del Gasherbrum IV (1958) e per aver guidato la spedizione che porta alla prima salita della parete sud del monte Denali (1961). Scrive Dove la parete strapiomba, Milano, Baldini&Castoldi, 1958; Cinquant’anni di alpinismo, Milano, Dall’Oglio, 1977 e Capocordata, Torino, Vivalda, 2001.

 

Titolo: Capocordata

Luogo di edizione: Torino

Casa editrice: Vivalda

Anno di pubblicazione: 2001

Edizione di riferimento: Capocordata, Milano, RCS, 2014.

 

Il volume, introdotto da una Premessa dell’autore, è suddiviso in due parti, per un totale di diciannove capitoli, la cui cesura è rappresentata dalla fine della Seconda guerra mondiale. Cassin racconta la sua vita da alpinista, soffermandosi, però, anche su numerosi elementi biografici che arricchiscono notevolmente la narrazione. Quest’ultima muove dall’infanzia dell’autore che spiega la sua attrazione per le montagne come pura evasione da una vita in pianura caratterizzata da duro lavoro e privazioni. Come racconta nel primo capitolo, la sua passione per l’alpinismo prende avvio da una scalata tra amici della Punta Cermenati sul Resegone ‒ che lo porta a contrarre «una “malattia” ben nota agli alpinisti» (p. 14) ‒ seguita dalla Grigna che diventa la sua “palestra” da rocciatore. Nel 1929, fonda a Lecco, con i suoi amici del rione di San Giovanni, un Gruppo Rocciatori presso il circolo sportivo “Nuova Italia”, che viene controllato e, solo raramente, finanziato dal partito fascista. Il secondo capitolo si apre con il tentativo di scalata della parete sud/sud-est Medale, compiuto nell’autunno 1930 con Carlo Corti, terminato con una rovinosa caduta per Cassin che gli vale solo una lussazione di un ginocchio e delle ferite. L’anno successivo, traccia una nuova via sulla parete est della Guglia Angelina con Mary Varale ‒ che «si rivela compagna d’eccezione, vigile, pronta, del tutto affidabile» (p. 32) ‒ una sul Sigaro Dones insieme a Giovanni Riva, un’altra sulla Corna del Medale, sul Torrione Palma e sul Pizzo d’Eghen. Cassin racconta anche la sua prima volta sulle Dolomiti che rappresentano per lui ‒ come per molti alpinisti ‒ una tappa obbligatoria. Qui incontra Tita Piaz che, secondo Cassin, «accanto a Preuss […] e a Dülfer […] segna una tappa fondamentale nella storia dell’alpinismo» (p. 64). Tra le varie scalate raccontate nel quarto e nel sesto capitolo, una lunga descrizione delle imprese alpinistiche è dedicata alle Tre Cime di Lavaredo, dove Cassin compie prime ascensioni, apre pareti inedite e ripete vie in tempi record. In particolare, si evidenzia la competizione tra alpinisti italiani e tedeschi per l’ascensione della parete nord della cima ovest di Lavaredo, vinta infine da lui e Vittorio Ratti nel 1935. Altre imprese importanti raccontate dall’autore nella prima parte del volume sono l’ascensione della parete nord-est del Pizzo Badile nel 1937 che vede la morte di Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi durante la discesa; la direttissima delle Grandes Jorasses con Esposito e Tizzoni, insieme al quale scala anche la parete nord-est dell’Aiguille de Leschaux. Il decimo e ultimo capitolo della prima parte del volume, intitolato La lotta partigiana, si apre con una citazione emblematica dell’alpinista Bruno Detassis: «in montagna ci si va per essere liberi. Senza la libertà l’alpinismo non esiste più» (p. 221). In queste pagine, infatti, l’autore si concentra sulla sua attività di partigiano per il Comitato di Liberazione Nazionale in qualità di capo del Gruppo Rocciatori della Brigata di Lecco. Nel secondo dopoguerra, Cassin diventa il presidente del CAI di Lecco, promuove il Gruppo dei Ragni della Grignetta e diventa presidente della Commissione Nazionale delle Scuole d’Alpinismo. Le imprese da lui raccontate nella seconda parte del libro ‒ la parete nord-ovest della Prima delle Tre Sorelle, nel Sorapiss; la Guglia del Diavolo; la traversata della Costiera di Sciara; la parete nord del Roseg, la parete sud del McKinley, la parete ovest del Jirishanca nelle Ande; la parete sud del Lhotse; alcune vette del Caucaso e una serie di ripetizioni ‒ sono tratte dai suoi appunti, per cui le descrizioni sono più sintetiche delle precedenti. Interessante il capitolo Ricognizione al K2 in cui Cassin narra la sua esperienza in Pakistan, soffermandosi sulla gente, gli usi e i paesaggi locali. Il racconto è completato dalle considerazioni riguardo alla sua esclusione dall’impresa del K2, dalle quali emerge la slealtà di Ardito Desio ‒ «mi sorge il dubbio, del resto confermato dai fatti, che si agisca in tal modo per timore che la mia reputazione oscuri quella di Desio. […]. E, se proprio non aveva intenzione di dichiarare il vero motivo della mia esclusione, non avrebbe dovuto basarla su una fasulla “non idoneità” fisica» (pp. 263-264). Ottiene, però, la sua rivincita guidando la spedizione sul Gasherbrum IV, riportata qui nei minimi dettagli. Si raccontano, inoltre, le operazioni di soccorso e di recupero di salme compiute nel corso degli anni da Cassin in montagna dal 1928 al 1958. Il testo si chiude con Il mio colloquio con la montagna, nel quale l’autore si sofferma su un tema che attraversa per intero il volume, il sistema dell’arrampicata artificiale che, sostiene, «non costituisce la fine dell’alpinismo: è solo il suo volto moderno imposto dalle necessità» (p. 410). La scrittura è descrittiva, il lessico è prevalentemente comune ma, talvolta, è tecnico perché Cassin incede minuziosamente sulle manovre compiute in parete, dando modo al lettore di immaginare e di comprendere appieno le sue imprese alpinistiche. Essendo un fabbro, Cassin riesce a forgiarsi i chiodi e i martelli da solo, scalando con scarponi chiodati, corda e piccozza. Dalla fine degli anni Venti, lui e il suo gruppo usano l’assicurazione con chiodi sia nelle fermate sia in parete. Nel terzo capitolo, che comincia con la scalata della parete est del torrione centrale dei Magnaghi del 1933, racconta di quando, sul Nibbio, il suo Gruppo Rocciatori apprende della salita a doppia corda con la salita a forbice e dell’utilizzo delle staffe. Cassin, prima di iniziare ogni stagione alpinistica, si allena su pareti accessibili e dal basso grado di difficoltà e, come spiega nel primo capitolo della seconda parte, si dedica all’alpinismo verticale esclusivamente in estate e in autunno a causa delle condizioni in cui versano le pareti da scalare. Il suo alpinismo, nonostante abbia le radici nella ricerca di evasione, si alimenta del «piacere della conquista» (p. 39) che è direttamente proporzionale alle difficoltà affrontate per il raggiungimento dello scopo. Ripensando alle sue scalate degli anni Trenta, afferma: «la nostra era l’epoca del sesto grado: l’audacia e la decisione erano le note dominanti della nostra gioventù» (p. 147). Il paesaggio montano è mero sfondo di una narrazione così strutturata: preparazione della scalata, attacco della parete, manovre e tecniche adottate per superare le difficoltà, arrivo in vetta e discesa. Interessante la considerazione di Cassin sull’usanza degli alpinisti di erigere degli “ometti” con delle pietre sulle cime, vedendola «come una presa di possesso: l’uomo contrassegna il suo primato. Ma hanno» ‒ gli ometti ‒ «anche un significato mistico, nonché una funzione pratica perché servono a indicare la strada» (p. 71). Un valore fondamentale dell’alpinismo che viene trasmesso dall’autore in questo volume è quello dell’amicizia che lo lega sinceramente ai suoi compagni di cordata come Mario Dell’Oro, Mario Villa, Giuseppe Comi, Augusto Corti, Riccardo Redaelli, Antonio Piloni, Vittorio Ratti, Ugo Tizzoni, Mary Varale ed Emilio Comici, definito come «l’artista dell’arrampicata» (p. 81). Dalle descrizioni delle scalate compiute da Cassin fin dagli anni Venti del Novecento, si evince come le montagne dell’arco alpino da lui frequentate siano affollate da cordate e appassionati di alpinismo, per cui le ascensioni che emozionano profondamente l’autore sono quelle su tracciati vergini «che dall’inizio dei secoli hanno subito soltanto il contatto con nebbia e pioggia, grandine e neve» (p. 34) e che, quindi, gli fanno assaporare «il senso dell’esplorazione» (Ibidem). Fin dalle prime scalate, si documenta sulle vie percorse da altri alpinisti per poi sceglierne di più difficili e, ove possibile, incontaminate. Su queste ultime procede poi alla chiodatura di assicurazione e di progressione che ‒ come ammette egli stesso ‒ «a molti non piace. Si afferma che i nostri chiodi “feriscono e profanano il sacro corpo della montagna”. In quanto a noi, veniamo definiti “maniscalchi”, ignari dell’“etica dell’alpinismo”» (p. 77). Si difende da tali critiche affermando: «da parte nostra, non disconosciamo l’opera di chi ci ha preceduto, anzi, siamo passati anche noi per la stessa strada e con l’identico entusiasmo, ma poi abbiamo preferito proseguire ‒ sia pure con l’aiuto dei chiodi ‒ anziché marciare sul posto nella fase romantica e contemplativa» (Ibidem).

 

[Clementina Greco, 29 aprile 2024]

Ultimo aggiornamento

05.02.2025

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