Nasce a Innsbruck nel 1924 e solo quattro anni dopo perde la madre. Per circa due anni, vive in un orfanotrofio e poi si trasferisce da una zia. Con il padre, appassionato escursionista, ascende il Glungezer già nel 1934. Dapprima svolge l’apprendistato come spedizioniere, in seguito partecipa alla Seconda guerra mondiale come soldato di montagna del corpo sanitario. Negli anni Cinquanta si sposa e ha tre figlie, una delle quali sarà la futura scrittrice Kriemhild Buhl. Diventa venditore e consulente di attrezzature sportive di montagna presso lo Sporthaus Schuster di Monaco di Baviera per poi, nel 1949, entrare in servizio alla Glungezerhütte come portatore sopra Innsbruck. Nel 1954 viene premiato come “Sportivo dell’anno 1953” dall’associazione giornalisti sportivi austriaci SMA. Muore scalando il Chogolisa nel Karakorum il 27 giugno 1957. Il suo corpo non è stato ancora ritrovato. Si ricorda per la prima invernale della parete sud della Schüsselkarspitze nel Wetterstein (1942); la prima ascensione della parete ovest della Maukspitze sul Wilder Kaiser con Hans Reischl e Wastl Weiss (1943); la prima ascensione dell’Ötztal (1946) la prima ascensione del Rofanturm (1946) la prima invernale della parete sud-ovest della Maukspitze (1948); la prima ascensione della parete ovest della Cima Canali (1949); la prima traversata del Gleierschkette nel Karwendel in invernale raggiungendo venticinque cime in trentatré ore con Josl Knoll (1949); la prima invernale del Grosses Mühlsturzhorn (1951); la prima solitaria della parete nord-est del Piz Badile (1952); l’ascensione della parete nord dell’Eiger con Sepp Jöchler (1952); la prima ascensione del Nanga Parbat (1953); la prima ascensione del Broad Peek (1957).
Titolo: Achttausend drüber und drunter
Luogo di edizione: München
Casa editrice: Nymphenburger
Anno di pubblicazione: 1954
Edizione italiana di riferimento: È buio sul ghiacciaio, a cura di Kurt Diemberger, trad. Irene Affentranger, Milano, Corbaccio, 2007.
Il volume è costituito da otto capitoli di varia lunghezza suddivisi in paragrafi. Buhl inizia a raccontare la sua carriera alpinistica partendo dalle prime avventure sulle montagne nei pressi di Innsbruck, compiute da ragazzino indossando solo calze di lana o tuttalpiù degli scarponi da sci. Quando viene ammesso nella sezione di Innsbruck del Club Alpino, impara ad arrampicare in corda doppia piantando chiodi con il martello. Nel 1939, come racconta lo stesso Buhl, perde in un’ascensione il suo amico Ernstl Vitavsky con il quale aveva condiviso la passione per l’alpinismo fin dall’infanzia. Nonostante le sue imprese eccezionali, infatti, Buhl dà conto delle morti cui assiste scalando, mostrando il tragico risvolto dell’attività. Nel secondo capitolo, l’autore ricostruisce cronologicamente le sue scalate, avvenute in compagnia di Waldemar Gruber, presso il Tirolo settentrionale, etichettabili con il sesto grado di difficoltà. In particolare, il paragrafo intitolato Ritorno alla vita racconta della terribile caduta di Buhl e di Gruber sul Fleischbank nel 1943 di ben sessanta metri, riuscendo a sopravvivere per puro caso. Si susseguono racconti di eccezionali ascensioni come la parete ovest della Maukspitze, delle Tre Cime di Lavaredo, della parete sud del Goldkappel, del Monte Bianco, delle Jorasses, dell’Eiger e, in particolare, del Nanga Parbat. I preparativi di quest’ultima spedizione, in partenza il 16 aprile 1953, la descrizione dell’imponente «Montagna del terrore» (p. 200) e i dettagli dell’ascensione occupano l’intero ottavo capitolo, contraddistinto da una prosa coinvolgente e quasi sempre angosciante. Nell’ultimo paragrafo, Buhl tira le somme sulla sua impresa e si autorappresenta come il discendente di una “dinastia” di alpinisti che hanno attaccato, nel corso degli anni, il Nanga Parbat «by fair means» (p. 261): Mummery, Welzenbach, Merkl, Frankhauser e Hartmann. Dall’edizione del 1958 in poi, l’autobiografia di Buhl viene arricchita da una relazione scritta da Kurt Diemberger riguardo alla spedizione al Broad Peak e al Chogolisa, compiuta dallo stesso Diemberger, Buhl, Marcus Schmuck e Fritz Wintersteller nel 1957, che risulterà fatale per Buhl. Quest’ultimo, inoltre, dedica un paragrafo alla moglie Eugenie con la quale compie le ascensioni della Marmolada, del Pizzo Bernina e del Pizzo Palù e di cui si dichiara «orgoglioso» (p. 165).
La prosa di Buhl è caratterizzata da coinvolgenti descrizioni delle ascensioni che pongono in rilievo i pericoli affrontati coraggiosamente dall’alpinista. L’autore adotta un registro linguistico medio e un lessico raramente tecnico. Esperto rocciatore, Buhl inizia a dedicarsi alle scalate sul ghiaccio dalla fine degli anni Quaranta, frequentando prima un corso speciale di tecnica sul ghiaccio, poi studiando la letteratura esistente su precedenti ascensioni e poi sperimentando egli stesso. Già nel 1943, l’alpinista usa la tecnica dei nodi di Prusik che sono autobloccanti bidirezionali. Fin dalle prime scalate, Buhl rileva la presenza di chiodi fissi alle pareti delle montagne vicino a Innsbruck: «là stanno infissi alcuni chiodi […] fanno una presa magnifica» (p. 17). Inoltre, i luoghi alpini da lui visitati sono notevolmente affollati, da quanto risulta dalla narrazione. Nel secondo capitolo del volume, l’autore afferma che gli alpinisti più anziani rimproverano a lui e ai suoi coetanei di non avere più rispetto della montagna ma lui ribatte che «il rispetto è rimasto in ogni caso il medesimo; quel che per contro si è trasformato è l’atteggiamento nei confronti dell’alpinismo e della difficoltà tecnica» (pp. 28-29) poiché gioia e paura si mescolano in un’ascensione che è sfida a sé stessi. Buhl sa che l’uomo è «meschinamente piccolo, insignificante» (p. 29) nei confronti della natura ed è per questo che utilizza i mezzi che ha a disposizione tra cui chiodi, piccozze, corde e medicine che facilitino la circolazione sanguigna. Riguardo ai cambiamenti della pratica alpinistica, inoltre, egli racconta che «all’avvicinarsi dell’estate del 1946 nella cerchia degli scalatori estremi si fa strada per la prima volta il discorso della “diretta”» (p. 62). Nel 1952, compie l’ascensione della parete nord-est del Pizzo Badile, descritta accuratamente nel sesto capitolo del volume in cui si legge: «c’è un’intera compagnia di persone radunata in vetta […], saluto la schiera di giovani italiani […]. La nostra conversazione è molto amichevole, anzi cordiale, e per l’ennesima volta si dimostra che per gli alpinisti non esistono frontiere nazionali. Sulle montagne contano esclusivamente l’uomo e ciò che esso è capace di compiere» (pp. 171-172). Nonostante ci si aspetti che Buhl comunichi la felicità del raggiungimento della vetta, soprattutto sull’Eiger e sul Nanga Parbat, all’alpinista «l’importanza di questo istante […] sfugge del tutto» (p. 240). Egli prova piacere, ebbrezza e soddisfazione più nel percorso dell’ascensione che a compimento dell’impresa. Dalle pagine dell’autobiografia, Buhl emerge come un instancabile alpinista ‒ «approfitto con diligenza di ogni ora libera per allenarmi» (p. 18) – animato da un’ardente passione per la montagna: «io, nulla a che spartire con le montagne? Ma se privato di esse non avrei potuto vivere! Non pensavo, sognavo, respiravo per nulla che non fosse montagna» (p. 24).
[Clementina Greco, 4 maggio 2024]
Ultimo aggiornamento
05.02.2025