Nasce ad Hampstead, Londra, nel 1934 e inizia a scalare all’età di sedici anni. Frequenta la University College School per poi arruolarsi tra i Royal Fusiliers. Nel 1956 si unisce al prestigioso Royal Tank Regiment. All’inizio degli anni Sessanta decide di diventare un alpinista professionista nonché un esploratore. Nel 1996 viene nominato Sir per la sua attività alpinistica che, nel 2015, viene premiata con il Piolet d’Or. Tra le numerose prime ascensioni ricordiamo: il Pilone centrale del Freney sul Monte Bianco con Ian Clough, Don Whillans, e Jan Dlugosz (1961); la parete Nord dell’Eiger (1962); la Torre centrale del Paine in Patagonia (1963); la Coronation street sul Cheddar Gorge (1965); l’Old Man of Hoy (1966); il Brammah (1973); il Changabang (1975); il Kongur Tagh (1981) e la cima ovest dello Shivling (1983). Ha ricoperto il ruolo di capo spedizione per l’Annapurna II, l’Everest e il K2. La sua bibliografia è piuttosto ampia e comprende: I chose to climb, London, Gollancz, 1966; Annapurna South Face, London, Cassell, 1971; The next horizon (London, Gollancz, 1972); Everest South West Face, London, Hodder & Stoughton, 1973; Changabang (London, Heinemann, 1975); Everest the Hardway (London, Book Club Associates, 1976); Quest for Adventure (London, Hodder & Stoughton, 1981); Kongur: China’s Elusive Summit (London, Hodder & Stoughton, 1982); Everest: the unclimbed ridge, con Charles Clarke (London, Hodder & Stoughton, 1983); The Everest Years (London, Hodder & Stoughton, 1986); Mountaineer: thirty years of climbing on the world’s great peaks, (London, London Diadem Books, 1989); The Climbers (London, Hodder & Stoughton, 1992); Sea, Ice and Rock, con Robin Knox-Johnston (London, Hodder & Stoughton, 1992); Great Climbs. A celebration of world mountaineering, con Audrey Salked (London, Mitchell Beazley, 1994); Tibet’s secret mountain. The triumph of Sepu Kangri, con Charles Clarke (London, Weidenfeld & Nicolson, 1999); Boundless horizons (London, Weidenfeld & Nicolson, 2000); Chris Bonington’s Everest (London, Weidenfeld & Nicolson, 2002); Ascent: a life spent climbing on the edge, London, Simon & Schuster, 2017.
Titolo: Everest the Hardway
Luogo di edizione: London
Casa editrice: Book Club Associates
Anno di pubblicazione: 1976
Edizione di riferimento: Everest. 33 giorni di scalata sulla parete Sudovest, Milano, Rusconi, 1977.
Il fototesto è costituito da sedici capitoli titolati e accompagnati da riferimenti temporali specifici, da una prefazione scritta da Lord Henry Cecil John Hunt, da undici appendici, da un indice analitico, da novantaquattro fotografie e da numerose illustrazioni relative, soprattutto, ai percorsi scelti nei vari tentativi effettuati per la conquista della parete. Una caratteristica senz’altro interessante del volume è che sono riportati stralci del diario dell’autore e di quelli dei suoi compagni, offrendo al lettore più punti di vista riguardo all’impresa in Nepal. Nella prefazione, Lord Hunt ‒ noto per aver guidato la spedizione britannica sul Monte Everest del 1953 ‒ presenta l’organizzazione che conduce Bonington a scalare, al secondo tentativo, la parete Sudovest dell’Everest, soffermandosi su equipaggiamento, tecniche, forza di volontà e qualità della squadra. Nel primo capitolo, Bonington si ricollega al tentativo fallito di scalare la parete Sudovest dell’Everest nell’autunno 1972 e ripercorre le tappe che lo conducono a una nuova spedizione nell’autunno del 1975. In seguito, l’autore si sofferma sulla ricerca di finanziatori ‒ tra cui spicca la Barclays Bank ‒, sul reclutamento di una squadra equilibrata ‒ composta da Martin Boysen, Doug Scott, Dougal Haston, Nick Estcourt, Paul Braithwaite, Pete Boardman, Allen Fyffe, Hamish MacInnes, Mick Burke, Dave Clarke, Mike Thompson, Ronnie Richards, Mike Rhodes, Jim Duff, Adrian Gordon e Charlie Clarke ‒ e sull’individuazione di un percorso più efficace di quello del 1972. Dal quarto capitolo, invece, inizia il viaggio effettivo per raggiungere l’Everest, ma è solo in quello successivo che l’enorme comitiva, costituita da ottanta sherpa e venticinque europei, stabilisce il Campo base. Dopodiché, il gruppo affronta la temibile Cascata di Ghiaccio in soli cinque giorni arrivando al Cwm Occidentale. La Parete Sudovest viene attaccata per la prima volta da Tut Braithwaite e Nick Estcourt nella seconda settimana di settembre quando Bonington decide improvvisamente di spostare il Campo 4. Charlie Clarke, in questa occasione, così lo descrive: «Chris sembra un maniaco […]. La sua voce, via radio, rivela la sua incontrollata esuberanza […]. È proprio un grande leader, a dispetto di tutte le critiche che gli vengono rivolte. Non esiste un altro con una personalità tale da saperci comandare e, in fondo, lo rispettiamo» (p. 144). Il decimo capitolo riporta dettagliatamente l’attacco, organizzato per piccoli gruppi, alla Grande Gola Centrale tra valanghe, nevicate e intoppi tecnici, mentre i due successivi riguardano le operazioni ‒ compiute da Braithwaite ed Estcourt ‒ attraverso la Fascia Rocciosa. In seguito, l’autore riporta i suoi ragionamenti riguardo alla conquista vera e propria della vetta stabilendo una serie di ascensioni, a cominciare da Scott e Haston i quali, essendo i veri e propri protagonisti della scalata alla cima, prendono voce nel quattordicesimo capitolo, composto da una serie di loro appunti. Nel quindicesimo e nel sedicesimo capitolo è la volta di Boardman, Burke e lo sherpa Pertemba che, in effetti, arrivano in vetta ma durante la discesa vengono colti da una valanga che provoca la morte di Burke. Tra angoscia e imprevisti di vario genere, la spedizione ha successo e il gruppo riesce a fare ritorno. La prima appendice riporta una breve scheda sui membri della spedizione ‒ tra cui spiccano i nomi degli sherpa, dei quali sono indicati anche l’età, il villaggio di provenienza e il campo più alto raggiunto ‒ e sul diario degli eventi. La seconda appendice riporta gli appunti di Bonington sulla logistica, comprendenti dei grafici esplicativi, che l’autore definisce «utili a chiunque voglia programmare una spedizione tipo assedio, in cui sia installata una serie di campi, collegata da corda fissa» (p. 274). L’autore riporta anche i cinque sistemi di matrici con cui viene elaborato il programma della spedizione da Stephen Taylor. Le altre appendici riguardano l’organizzazione ‒ scritta da Cheney ‒, i trasporti ‒ di Richards e Stoodley ‒, l’equipaggiamento ‒ di Clarke ‒ con una descrizione dettagliata delle boxes da parete e da vetta progettate da Hamish MacInnes, i viveri ‒ di Thompson ‒, il sistema di ossigenazione ‒ di MacInnes ‒, le comunicazioni ‒ di Richards ‒, le fotografie ‒ di Scott ‒, i filmati ‒ di Stuart ‒, le medicine ‒ di Clarke. L’ultima appendice è formata da un glossario di termini tecnici. La scrittura di Bonington è equilibrata, elegante ed essenziale. L’autore riporta minuziosamente i dettagli delle operazioni che permettono l’ascensione della parete Sudovest ma si sofferma più e più volte sulle emozioni e sui ragionamenti provati durante quest’esperienza. Dal punto di vista tecnico, come evidenziato nella prefazione da Lord Hunt, la squadra usa corde fisse e tutti gli scalatori sono agganciati per mezzo di uno jumar. Bonington e compagni fanno largo uso di bombole di ossigeno sia di giorno che di notte, indossano scarponi con ramponi e, tra i vari attrezzi del mestiere, utilizzano corde, chiodi, ancoraggi deadman, martelli da ghiaccio e piccozze. Si rileva come Bonington evidenzi più volte il fatto di aver recuperato materiale lasciato dalla spedizione giapponese del 1973 che definisce «immondizie appena scavate» (p. 143) per poi chiarire, alla fine del volume, di aver anch’egli abbandonato sulla parete buona parte dell’equipaggiamento. Una breve riflessione sulla pratica alpinistica chiude l’ultimo capitolo del libro in cui Bonington spiega che l’egoismo è parte integrante dell’essere scalatori, senza di esso non sarebbe possibile rischiare la vita lasciando a casa parenti e amici. Traccia, infine, un bilancio della conquista appena effettuata e scrive: «Non è il caso di parlare di scarso interesse quando si affrontano cime meno alte di quelle dell’Everest, perché se si riducono le dimensioni della squadra si può sempre conservare il senso della sfida che è l’essenza stessa dell’arrampicare. […]. Una delle gioie dell’alpinismo, in questo mondo che si restringe rapidamente, è che gli alpinisti delle generazioni future potranno ancora scoprire luoghi mai esplorati nelle più grandi catene montuose della terra» (p. 255).
[Clementina Greco, 24 ottobre 2024]
Ultimo aggiornamento
05.02.2025