Nasce a Stockport, in Inghilterra, nel 1950 e inizia a scalare con alcuni compagni di scuola nel Peak District National Park. Nel 1966 si iscrive al Mynydd Climbing Club, circondandosi di giovani che condividono la sua passione. Frequenta l’Università di Nottingham dove diventa il Presidente del Mountaineering Club nel biennio 1971-1972. L’anno successivo ottiene un Postgraduate Certificate in Education (English and outdoor activities) dall’University College of North Wales. Nello stesso anno diventa istruttore di alpinismo presso il Glenmore Lodge mentre nel 1975 diventa National Officier per il British Mountaineering Council. Nel 1974 incontra Hilary Collins che diventa sua compagna nella vita e in cordata. Quattro anni dopo, si trasferiscono a Leysin, in Svizzera, dove Boardman ricopre il ruolo di direttore della scuola internazionale di alpinismo. Muore nel 1982 scalando l’Everest con Joe Tasker. Il suo corpo viene ritrovato soltanto nel 1995. Si ricorda, tra le varie imprese, per la fruttuosa spedizione nell’Hindu Kush (1972); per aver scalato per la prima volta la parete Sud del monte Dan Beard in Alaska (1974); per aver aperto con Tasker una nuova via sulla parete Ovest del Changabang (1976); per aver compiuto la prima scalata della parete Sud del Carstensz Pyramid con Hilary Collins (1978; per la prima ascensione sul Kangchenjunga con Tasker e Doug Scott (1979) e per la scalata del Kongur (1981). Scrive The shining mountain: the two men on Changabang’s west wall, London, Hodder & Stoughton, 1978, che vince il John Llewellyn Rhys Prize nel 1979, e Sacred Summits. A Climber’s year, London, Hodder & Stoughton, 1982.
Titolo: The shining mountain: the two men on Changabang’s west wall
Luogo di edizione: London
Casa editrice: Hodder & Stoughton
Anno di pubblicazione: 1978
Edizione di riferimento: La Montagna di luce, Milano, RCS, 2014.
Il libro contiene, oltre a una cronologia della spedizione in India del 1976 per scalare la parete Ovest del Changabang, degli appunti ‒ segnalati nel testo dal corsivo ‒ di Joe Tasker che offrono un punto di vista alternativo riguardo ad alcuni fatti. Il primo capitolo, intitolato Dall’ovest, presenta le riflessioni dell’autore mentre lavora presso il British Mountaineering Council ed è costretto, suo malgrado, a sopportare incontri, conferenze, interviste riguardanti la sua impresa sull’Everest e che lo dipingono come un eroe. La fama, però, non lo inorgoglisce, al contrario, lo svilisce e gli fa avvertire un’amara solitudine per l’impossibilità di condividere davvero le sue esperienze. È proprio in questa fase che si chiede chi siano gli alpinisti: «occidentali eroi di professione? Parassiti in fuga che giovano all’avventura? Ossessionati disertori che vogliono fare qualcosa di diverso? Scontenti ed egomaniaci che non si assoggettano alla disciplina del conformismo?» (p. 7). La routine e lo sconforto vengono spezzati, però, dalla proposta di Joe Tasker di scalare la parete Ovest del Changabang. Il racconto prosegue con i preparativi della spedizione e la partenza per Delhi del 22 agosto. In seguito, l’autore racconta delle peripezie, soprattutto burocratiche, che lui e Tasker devono affrontare a Delhi prima di potersi recare alla base del Changabang. Sono interessanti le riflessioni di Boardman sulla società indiana, colpita da povertà, fame, sovraffollamento e assenza di igiene. Dopodiché, i due alpinisti e l’ufficiale di collegamento, Palta, cominciano il faticoso viaggio, di villaggio in villaggio, per avvicinarsi alla montagna, mentre i portatori trasportano l’attrezzatura necessaria all’ascensione. Giunto di fronte al Changabang, infine, Boardman scrive: «tutte le montagne, di tutto il mondo, hanno qualcosa in comune. Ora, in mezzo a loro, ero a mio agio…non sembrava più che fossimo in India. Potevo capire tutto» (p. 63). In seguito, Tasker e l’autore trascorrono diverso tempo nelle rispettive tende a leggere e a scrivere appunti o riflessioni sull’esperienza. Tasker, per esempio, scrive riguardo a Boardman: «la sua sonnolenza a volte è noiosa. Non che sia pigro, semplicemente non pensa» (p. 65). Dopodiché, i due cominciano una fase di studio della parete Ovest del Changabang, rendendosi conto dell’inadeguatezza delle fotografie come strumento valutativo. Quando tutto è pronto, Tasker e Broadman iniziano ad attaccare la parete ghiacciata con ramponi e piccozza. Il quarto capitolo racconta le vicende successe tra il 21 e il 27 settembre, giorni concitati durante i quali Tasker e Boardman affrontano la parete. L’autore così descrive la sua esperienza: «era un’arrampicata in libera, magnifica, difficile, ripida, per lo più d’incastro o d’opposizione, lungo fessure con roccia rugosa. […]. Questo era ciò per cui ero andato fin lì. Ero venuto per il brivido fisico dell’arrampicata e non per oscillare pericolosamente su sottili corde fisse» (pp. 94-95). Boardman evidenzia come sia lui che Tasker registrino fatti, paesaggi, impressioni, pericoli ecc. con mezzi diversi: l’uno scrivendo appunti, l’altro scattando fotografie. Difficoltà di ogni genere, dal freddo alla nevicata, dalla gelata alle dita di Boardman all’impossibilità di cucinare, occupano il quinto capitolo che si conclude con la loro ritirata al campo avanzato. Nelle pagine successive, viene descritto l’incontro con Neko Colevins e Graham Stephenson di una cordata americana che sta tentando di scalare la cresta Sud-Ovest del Dunagiri: oltre al non sentirsi più isolati, l’autore e Tasker ammirano soprattutto l’attrezzatura e l’abbigliamento estremamente innovativi dei colleghi statunitensi. L’attacco all’Upper Tower, che avviene tra il 9 e il 13 ottobre, durante il quale Boardman cade per dodici metri, occupa il settimo capitolo, caratterizzato dalla descrizione dettagliata dei vari passaggi tecnici affrontati dai due alpinisti che spesso sono mossi da competizione. L’ottavo capitolo si apre con una poesia riguardante la montagna per poi proseguire con il racconto del raggiungimento della Rampa e poi, finalmente, della vetta. Boardman così descrive la sensazione di essere in cima al Changabang: «odiavo l’idea di scendere la parete ovest. […]. Per un momento mi sentii di saper tutto sul mondo. Ma quel sentimento di invincibilità era un’illusione dell’orgoglio, perché dovevano ancora scendere» (p. 213). In seguito, Tasker e Boardman iniziano la discesa e, una volta giunti ai piedi del Rhamani Glacier, incontrano Corradino Rabbi, il capo della spedizione italiana al Garhwal, e Ruth Erb, membro della spedizione americana, che comunica ai due alpinisti il decesso di suo marito e altri tre amici sul Dunagiri. Boardman e Tasker decidono, così, di andare a recuperare i corpi. La tragica esperienza viene così avvertita dall’autore: «la morte di quei quattro ci aveva fatti sentire vivi fin nell’intimo. Quello era sentire la vita, sentire che eravamo rimasti» (p. 243). L’ultimo capitolo è dedicato al ritorno a casa, durante il quale l’autore traccia un bilancio dell’impresa: «avevamo esaltato l’idea di scalare la Parete. Per due mesi ci aveva dato qualcosa in cui credere, aveva costituito un punto fermo della nostra vita. […] non potei non riconoscere un po’ preoccupato che la nostra determinazione a senso unico aveva assunto i colori del fanatismo» (p. 256).
La prosa di Boardman è scorrevole, avvincente e facilmente comprensibile, pur ammettendo dei periodi ricercati. Il lessico è comune ma spesso vede inserti di vocaboli tecnici. In base a quanto descritto nel testo, Boardman scala usando corde, piccozze, ramponi, staffe, chiodi di vario genere ‒ soprattutto knife blade ‒, martelli da ghiaccio, moschettoni e fettucce. È interessante la sua riflessione quando, rimasto solo al campo base ‒ come raccontato nell’ultimo capitolo ‒, prende coscienza dell’impatto degli alpinisti sull’ambiente: «le spedizioni avevano portato la devastazione in quel luogo. C’era tutta la spazzatura di roba buttata via o rotta e gli spiazzi per le tende erano stati scavati nel pendio con muretti di sassi costruiti attorno. Ora che ero da solo mi sembrava un vandalismo» (p. 247). Nel primo capitolo, inoltre, Boardman ragiona sui cambiamenti occorsi all’alpinismo e, in particolare, sull’assenza dell’elemento esplorativo, misterioso, incognito: «c’è una relazione sottile tra località reale e rappresentazione mentale. […]. Le frontiere di oggi non sono di terre promesse, di colli invalicati o di valli misteriose. […]. Oggi l’alpinista-esploratore deve guardare a pareti inaccesse, a creste inviolate e portarvi l’equipaggiamento, le tecniche e le mentalità sviluppatesi negli ultimi quaranta anni. […]. Ci sono così tante vie, una così grande documentazione che solo la propria interiorità rimane da esplorare» (p. 17).
[Clementina Greco, 18 ottobre 2024]
Ultimo aggiornamento
05.02.2025